Come e perché assumere un milione di giovani nella PA

Un team di docenti delle Università di Torino e del Piemonte Orientale ha realizzato un articolato studio sulla PA italiana evidenziandone il sottodimensionamento rispetto ai dipendenti pubblici in organico in altri Paesi europei.
15 Febbraio 2022 |
A cura della redazione

Un team di docenti delle Università di Torino e del Piemonte Orientale ha realizzato un articolato studio sulla PA italiana evidenziandone il sottodimensionamento rispetto ai dipendenti pubblici in organico in altri Paesi europei. Uno studio e una ricerca divenuti in seguito un piano di assunzioni per oltre 26 miliardi di euro da finanziare tramite un’imposta di solidarietà sui patrimoni finanziari. Innovazione.PA ospita questo contributo di studio e ricerca nella speranza che questa scelta possa aprire un serio dibattito sull’organizzazione della nostra Pubblica Amministrazione e sui dipendenti pubblici.

Introduzione: le finalità

Uno studio di alcuni accademici di Università piemontesi propone che vengano assunti un milione (come ordine di grandezza) di giovani nella Pubblica Amministrazione in aggiunta allo stock attuale, precari inclusi, di dipendenti pubblici (circa 3.200.000). Ciò è necessario in quanto gli occupati nel settore pubblico in Italia sono eccezionalmente pochi, al punto che molto probabilmente nessuna riforma della PA può offrire risultati importanti in assenza di un consistente piano di assunzioni. I dati incontrovertibili che dimostrano ciò compaiono nella tabella 1, che evidenzia anche come il sottodimensionamento della nostra Pubblica Amministrazione rispetto ad altri paesi non sia dovuto a una maggiore esternalizzazione delle mansioni. Analogamente, è illusorio pensare di ridurre in modo significativo il tasso di disoccupazione confidando sul solo settore privato, come risulta dalla tabella 2.

Il costo dell’assunzione di un milione di nuovi dipendenti pubblici sarebbe intorno ai 26,5 miliardi di euro, supponendo che il costo di ciascuno di essi sia equiparabile a quello di un insegnante neo-assunto nella scuola media. Il finanziamento del piano di assunzioni suggerito può essere realizzato in svariati modi, inevitabilmente agendo sulla leva fiscale. Gli autori dello studio propongono un’imposta di solidarietà sulla ricchezza finanziaria, in quanto essa ha dei notevoli vantaggi, che vedremo.
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Ricadute e benefici

Gli effetti positivi della politica proposta sono ovvi: Riduzione della disoccupazione, Espansione della domanda, Miglioramento dell’efficacia della pubblica amministrazione (e conseguenti effetti espansivi sull’economia dal lato dell’offerta), Crescita del Pil (la trasformazione di 26,5 miliardi di ricchezza in redditi farebbe crescere per ciò stesso il Pil di circa l’1,7%, e farebbe calare il rapporto debito/PIL di circa il 3%). Analogamente, sono palesemente sbagliate due obiezioni che pure ci sono state rivolte, e cioè:

Possibili fughe di capitali all’estero: l’imposta graverebbe sui cittadini italiani, ovunque sia collocata la loro ricchezza regolarmente detenuta. L’unico modo per aggirare l’imposta sarebbe il cambio di cittadinanza, cosa difficilmente ipotizzabile per aliquote molto basse, quali quelle qui suggerite. Perché limitare l’imposta alla ricchezza finanziaria, escludendo la ricchezza immobiliare: la distribuzione della ricchezza finanziaria è sostanzialmente analoga a quella della ricchezza totale, di cui costituisce poco più del 40%. Quindi un’imposta per es. dello 0,4% sulla ricchezza totale dà lo stesso gettito di un’imposta dell’1% sulla ricchezza finanziaria, ma quest’ultima ha dei costi di esazione, sia per lo Stato che per il contribuente, enormemente minori.

Dove e come assumere? L’evidenza suggerisce che la carenza di personale è particolarmente alta in alcuni sottosettori della PA, come le politiche attive del lavoro, l’amministrazione della giustizia civile e la sanità. Tuttavia non è possibile in questa sede suggerire un piano dettagliato di assunzioni, dato che ciò richiede un’analisi approfondita che non può essere condotta che dai competenti organi del governo. In un documento più completo disponibile a richiesta (vedi sotto) compaiono comunque alcune indicazioni a questo proposito.
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Il reale fabbisogno di personale della PA

I confronti internazionali non lasciano dubbi sul sottodimensionamento della Pubblica Amministrazione italiana. I dati più importanti sono riassunti nella tabella 1. In essa sono considerati sia i pubblici dipendenti in senso stretto (colonna 7) che più in generale gli addetti totali, pubblici, privati e cooperativi, alla produzione di servizi pubblici, per tenere conto dei diversi regimi di esternalizzazione.

Da questi dati si desume quanto segue. 1 (col. 9). Il settore pubblico italiano è sottodimensionato rispetto a tutti i paesi della tabella. 2 (col.10). Non è vero che in Italia ci sono pochi impiegati pubblici perché l’esternalizzazione è più diffusa che in altri paesi. 3 (col.12). Il sottodimensionamento dell’Italia è particolarmente sensibile fra gli addetti amministrativi. Quindi non è vero che in Italia ci sono troppi “travet” nel settore pubblico. Ed è lecito sospettare che questa carenza di addetti amministrativi abbia molto a che fare con la scarsa produzione del settore pubblico (che spesso viene confusa con la produttività, cioè la mole di servizi prodotti diviso il numero di addetti); e quindi che è illusorio pensare che sia possibile raggiungere livelli di efficienza dell’amministrazione paragonabili a quelli dei paesi elencati senza un consistente aumento di personale anche amministrativo.

Un corollario molto importante di quanto sopra è illustrato dalla tabella 2.

Se nei paesi considerati il settore pubblico, comprese le relative esternalizzazioni, avesse le stesse dimensioni dell’Italia il loro tasso di disoccupazione sarebbe molto più alto di quello italiano. Quindi è illusorio pensare di potere raggiungere in tempi ragionevoli un tasso di disoccupazione analogo a quello dei paesi qui considerati confidando solo sul settore privato.

Il sottodimensionamento della pubblica amministrazione spiega il ben noto paradosso dei laureati che caratterizza il nostro paese. Come è noto, l’Italia è al penultimo posto fra i paesi Ocse per quanto riguarda la quota di laureati sulla popolazione in età 25-34 (davanti al solo Messico), ma al tempo stesso Il tasso di inattività dei laureati è eccezionalmente alto (23%, contro per es. il 7% del Regno Unito, l’8% della Francia, il 9% della Germania, ma anche l’11% della Spagna). La spiegazione del paradosso è evidentemente proprio il sottodimensionamento del settore pubblico, che in un paese sviluppato assume moltissimi laureati (in primis nell’amministrazione, nell’istruzione e nella sanità). Spiegazioni più avventurose, come la presunta tendenza degli italiani a laurearsi nelle materie sbagliate, rendono al massimo conto di una parte molto piccola del paradosso, come emerge chiaramente dai dati disponibili, anche se qui manca lo spazio per approfondire il discorso. Si veda nel caso il nostro documento più ampio.
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I costi: 26,5 miliardi l’anno

Il costo della manovra dipende ovviamente dal numero di nuove assunzioni e dal costo del lavoro, dove con questo termine si intende il maggior passivo che si determinerà, a causa di ciò, per il bilancio dello Stato. Vanno pertanto inclusi gli oneri sociali ma escluse le imposte a carico sia del lavoratore che del datore di lavoro, in quanto partite di giro. Si è supposto che il costo di un neo-assunto sia pari a quello di un neo-assunto nella scuola media inferiore. In questo scenario per l’assunzione di un milione di nuovi dipendenti occorrerebbero 26,543 miliardi di euro l’anno. Ovviamente sono possibili altri scenari, basati su diverse combinazioni dei parametri implicati (si veda più sotto il punto 7 del par.6).
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Un’imposta solo sui grandi patrimoni

Come si è detto, questo gruppo di studio propone come mezzo di finanziamento un’imposta di solidarietà sul patrimonio finanziario delle famiglie, che graverebbe, peraltro in misura molto modesta, solo sui patrimoni più consistenti. Ovviamente si possono avanzare anche ipotesi alternative, tra le quali le più immediate sono aumenti dell’Irpef o dell’Iva. Pur non essendo gli aumenti necessari particolarmente gravosi rispetto al gettito complessivo dei due principali tipi di imposta, va sottolineato come questi avrebbero effetti negativi sul reddito disponibile, riducendo così gli effetti moltiplicativi, e anche sul livello dei prezzi. Ma soprattutto, un’imposta sulla ricchezza finanziaria ha alcune caratteristiche positive molto importanti: non ha praticamente costi di esazione, richiede un’aliquota bassissima, può essere revocata entro pochi anni (come vedremo), implica un esborso per i contribuenti inferiore al rendimento normale della ricchezza finanziaria (e quindi presumibilmente lo stock iniziale di capitale non verrebbe ridotto), e infine è la procedura preferibile dal punto di vista etico: in un’emergenza è giusto che chi ha di più aiuti chi ha di meno.

Secondo i dati pubblicati dalla Banca d’Italia il patrimonio finanziario delle famiglie è pari (nel 2019) a 4.445,4 miliardi. Le elaborazioni che seguono hanno richiesto inevitabilmente delle assunzioni piuttosto forti; è ragionevole però ritenere che dati più accurati non dovrebbero modificare i risultati in modo sostanziale. Le assunzioni sono le seguenti.

Distribuzione della ricchezza finanziaria fra le famiglie. Gli ultimi dati disaggregati disponibili sono stati pubblicati dalla Banca d’Italia nel 2018, e sono riferiti al 2016. Le famiglie sono classificate in ordine crescente in base alla ricchezza netta totale, e sono suddivise in decimi del totale delle famiglie; ogni decimo è composto (al 2019) da 2,57 milioni di famiglie. È stato inevitabile assumere che tale distribuzione sia la stessa per la ricchezza finanziaria lorda e per il 2019. Va però notato che la concentrazione della ricchezza è aumentata negli anni successivi al 2016, e che la quota di ricchezza non finanziaria è meno elevata per le famiglie più ricche. Ne consegue che l’uso di dati più aggiornati dovrebbe rendere probabile che, a parità di gettito, sia possibile adottare aliquote più basse piuttosto che il contrario. Si è ipotizzato che entro ogni decimo la ricchezza sia eguale per tutte le famiglie. Questa ipotesi è sostanzialmente innocua, in quanto dati più precisi determinerebbero solo una differenziazione delle aliquote effettive all’interno di ciascun decimo, ma non una differenza nel gettito complessivo.

Sono state simulate tre diverse ipotesi di oneri fiscali e gettito, vale a dire: (a) un’imposta dell’1%, con una quota esente per tutti di €100.000, (b) un’imposta dell’1,33% con una quota esente per tutti di €200.000 e (c) un’imposta dell’1,73% con una quota esente per tutti di €300.000. Nelle tre ipotesi il gettito è molto simile ed è sempre tale da consentire il finanziamento di un milione di nuovi dipendenti nella PA. Nello scenario (a) i decimi dal primo al sesto non pagherebbero nulla, il settimo pagherebbe in media lo 0,07%, l’ottavo lo 0.35%, il nono lo 0.64% e il decimo lo 0.89%. Nello scenario (b) pagherebbero solo il nono (0,39% in media) e il decimo (1,04%). Nello scenario (c) pagherebbe l’imposta solo il 10% più ricco delle famiglie con un’aliquota media dell’1,157%. Che questi oneri siano sostenibili ci pare indubbio.
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Effetti moltiplicativi

Come è già stato chiarito, il finanziamento della spesa necessaria alla realizzazione del piano di assunzioni tramite un’imposta di solidarietà sui patrimoni permette al meccanismo del moltiplicatore di esprimere al massimo le sue potenzialità. Il moltiplicatore che può stimare sulla base dei dati della Banca d’Italia è compreso tra i valori 1,4 e 1,6. Per semplicità si è assunto il valore intermedio di 1,5.Su una spesa iniziale di 27 miliardi si avrebbe un aumento del reddito di 40,5 miliardi (pari al 2,2% del Pil), con un aumento del gettito fiscale e parafiscale di 17,2 miliardi. Se queste maggiori entrate andassero a ridurre il debito pubblico, il rapporto debito/PIL si gioverebbe sia dell’aumento del denominatore sia di una riduzione del numeratore. Se invece la parte strettamente fiscale (9,5 miliardi, provenienti da Irpef e Iva) di queste maggiori entrate andasse a finanziare nuove spese pubbliche per beni e servizi, l’aumento del Pil dovrebbe essere maggiorato degli effetti moltiplicativi (14,3 miliardi) anche di questa ulteriore spesa, per un totale di 54,8 miliardi (pari al 3% del Pil).

Essendo quello del moltiplicatore un modello di breve periodo, va considerato costante lo stock di capitale e dobbiamo dunque limitare il calcolo degli effetti del provvedimento a quelli sopra elencati. Passando invece dal breve al medio periodo – come sarebbe corretto dato che si parla di effetti su più anni – è probabile che, calcolando gli effetti di attivazione del moltiplicatore (moltiplicatore + acceleratore) sugli investimenti privati, si avrebbero aumenti di reddito ben maggiori. Difficili però da quantificare, poiché occorrerebbe fare delle ipotesi sui coefficienti di adeguamento dello stock di capitale da parte degli imprenditori, determinati sia dalle loro aspettative sia dalla competitività del made in Italy. Qualora questi effetti congiunti arrivassero a far crescere il Pil di 63,6 miliardi di euro (+3,47%), tale aumento produrrebbe a sua volta un aumento del gettito fiscale pari a 27 miliardi, e dunque il provvedimento da quel momento in poi pagherebbe da sé il costo dei nuovi assunti. Qualora la crescita del Pil apportata dalla realizzazione del progetto fosse anche solo dell’1% all’anno, questa soglia verrebbe raggiunta in circa 4 anni. È ovvio comunque che qualsiasi scenario di previsione va adottato con cautela, soprattutto in un periodo ricco di incertezza come quello attuale.
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Considerazioni giuridiche

I benefici ottenibili con questo progetto sono così elevati e il contributo richiesto così ridotto da rendere sostanzialmente superflue considerazioni giuridiche. Si ritiene però che sia utile sottolineare la coerenza fra esso e l’art. 53 della Costituzione (“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”). L’articolo stabilisce che quanto maggiore è la capacità contributiva di un cittadino, tanto maggiore deve essere la percentuale che deve pagare complessivamente al fisco, tenendo conto di tutti i tipi di imposta (“sistema tributario”).

Le imposte sul reddito, in Italia come in ogni paese sviluppato, hanno perciò aliquote crescenti in funzione dei redditi (anche se negli ultimi decenni quelle più elevate sono state ovunque ridotte).

Tuttavia, ciò che deve essere preso in considerazione non sono solo i redditi, ma appunto la capacità contributiva.

Essa è costituita anche dalla ricchezza. L’interpretazione che i Costituenti diedero al dettato dell’art. 53 è quella così enunciata nel 1947 da Salvatore Scoca: “la progressione applicata ai tributi sul reddito globale o sul patrimonio deve essere tale da correggere le iniquità derivanti da altri tributi”. La tassazione del patrimonio deve quindi farsi carico, ove necessario, di reintrodurre il principio di progressività eventualmente violato da altri tributi. Per i cittadini più ricchi, la ricchezza (il patrimonio, nelle parole di Scoca) è in massima parte ricchezza finanziaria, e questa è costituita perlopiù dall’accumulo di redditi da capitale (e sovente in buona parte è ereditata). Ora, i redditi da capitale sono tassati in misura proporzionale, e non progressiva, e con un’aliquota piuttosto bassa (il 26%, contro il 43% della aliquota massima dell’imposta sui redditi). Una limitata imposta sulla ricchezza finanziaria, con aliquote progressive e una quota esente, contribuirebbe a ripristinare (peraltro solo in minima parte) la progressività richiesta dalla Costituzione alla capacità contributiva nel suo complesso.

Quelle precedenti sono considerazioni per così dire difensive, nel senso che sono intese a parare un’obiezione plausibile anche se auspicabilmente poco invocata, data l’esiguità degli importi implicati, e cioè che la tassazione della ricchezza è ingiusta in quanto gli imponibili sono già stati tassati, come redditi, durante la loro formazione. Ma una lettura un minimo attenta della Costituzione porta anche a considerazioni più propositive. L’art. 2 prevede, accanto ai diritti inviolabili, l’esistenza di “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”, in mancanza dei quali nessun popolo potrebbe realmente dirsi tale. In questo quadro, la prima parte della Carta Fondamentale definisce un insieme di diritti e doveri, nell’adempimento dei quali lo Stato agisce da intermediario fra i contribuenti e i percettori dei diritti. Come si sa, nel tempo è invalso l’uso di vincolare il livello di attuazione di tali diritti, come peraltro inevitabile, alle risorse disponibili; e di determinare queste ultime sulla base delle politiche fiscali che si è deciso di realizzare. Si dovrebbe invece ragionare in modo opposto: la Costituzione garantisce alcuni diritti, e tramite opportune politiche fiscali occorre trovare le risorse necessarie alla loro concreta attuazione. Lo Stato insomma deve tornare a svolgere pienamente il suo ruolo redistributivo, a implementazione del vincolo di solidarietà previsto nella Costituzione. La nostra proposta va in questa direzione.
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L’opinione pubblica sarebbe a favore

Un sondaggio (telefonico, computer assisted) è stato effettuato dalla società di sondaggi SWG nel mese di giugno 2021. Al campione dei rispondenti, costituto da 1200 persone, statisticamente rappresentativo della popolazione italiana maggiorenne, sono state rivolte le seguenti domande:

Domanda 1- Vorremmo chiedere la sua opinione su una proposta economica elaborata da un gruppo di studiosi di alcune Università. Come probabilmente sa, in Italia ci sono moltissimi giovani che non trovano lavoro. Ritiene che lo Stato dovrebbe intervenire, creando direttamente posti di lavoro?

Domanda 2- La proposta ha il duplice scopo di rafforzare i servizi pubblici più carenti come, per esempio, sanità, giustizia, scuola, difesa del territorio, e di ridurre drasticamente la disoccupazione dei giovani. Essa consiste in un piano straordinario di assunzioni, finanziato con un piccolo prelievo fiscale (1%) sui Patrimoni Finanziari (conti in banca, azioni, obbligazioni, bot, ma NON su case, terreni o altri beni immobili con una quota esente di 100.000 euro. Quota esente significa che chi avesse un patrimonio inferiore a 100.000 euro non pagherebbe nulla, chi avesse un patrimonio di 150.000 euro pagherebbe l’1% di 50.000 euro (perché i primi 100.000 sono esenti), che avesse un patrimonio di 200.000 euro pagherebbe l’1% di 100.000, e così via. Lei sarebbe favorevole?
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Dei soggetti intervistati sono note le seguenti caratteristiche: sesso/genere, età, area di residenza, dimensione del comune di residenza, titolo di studio, composizione nucleo familiare, professione, collocazione politica, cittadinanza, valutazione della condizione economica, orientamento rispetto alla religione. Il 65,2% degli intervistati (il 77,4% se si esclude chi ha risposto “non so”) risponde “si” alla domanda 1; ai fini del nostro studio interessano soprattutto le risposte alla domanda 2, di cui riportiamo alcune articolazioni. Per ragioni di spazio ci limitiamo a riprodurre solo alcuni dei principali risultati. Tutti i dati sono in percentuale.
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Se si escludono coloro che non esprimono un’opinione, meno del 23% dei soggetti dichiara la propria contrarietà a un ruolo diretto dello Stato nella creazione di posti di lavoro (domanda 1) e dunque oltre il 77% è invece favorevole. Analogamente, un’ampia maggioranza, sebbene più contenuta della precedente (65,3%), vedrebbe con favore anche l’introduzione di un’imposta straordinaria sui patrimoni finanziari finalizzata alla creazione di posti di lavoro nel pubblico impiego (domanda 2). La riduzione del ruolo dello stato propugnata dall’ideologia neoliberista non sembra aver fatto grande breccia nel sentire dei cittadini. Né si può sostenere che tali opinioni siano contingenti, fortemente influenzate dalla difficile esperienza della pandemia e da una nuova eccezionale consapevolezza del ruolo cruciale dello Stato, poiché una analoga rilevazione del 2014 aveva dato risultati simili (si veda https://econpapers.repec.org/paper/ucaucapdv/).
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Il risultato più rilevante è la mancanza di maggioranze contrarie, quale che sia l’articolazione dei dati. I “no” non superano mai i “si”. Ciò premesso, valori relativamente bassi per i “si” si hanno nel nord-ovest e fra gli elettori di centro-destra e destra con riferimento alla domanda 2, cosa non sorprendente; e anche, sempre con riferimento alla domanda 2, fra coloro che vivono in condizioni più disagiate. Questo dato meriterebbe invece un’analisi più approfondita. In ogni caso, è evidente come il luogo comune che vuole l’opinione pubblica contraria a ogni imposta sulla ricchezza “senza se e senza ma” è radicalmente sbagliato: qualora l’impiego delle risorse derivanti da tale imposta fosse ritenuto valido, una maggioranza molto ampia degli ipotetici contribuenti sarebbe disposta a sostenerne l’onere. Va segnalato, inoltre, che nella domanda 2 si prospetta l’ipotesi di esenzione meno favorevole per il più grande numero di contribuenti: è ipotizzabile pertanto che le altre due ipotesi (con quote esenti più elevate) avrebbero un consenso ancora maggiore. È appena il caso di sottolineare, di conseguenza, che una forza politica che sostenesse la nostra proposta troverebbe il sostegno dell’opinione pubblica.
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Conclusioni: un primo passo significativo

Un milione di assunzioni non basta a colmare il divario con i paesi europei con cui dobbiamo confrontarci. Sarebbe comunque un primo passo significativo. Quanto dichiarato di recente dal ministro Brunetta va forse nella stessa direzione, ma è ancora troppo limitato. Le annunciate 5-600.000 assunzioni stabili da effettuarsi nei prossimi anni corrispondono semplicemente alla sostituzione dei lavoratori che si ritireranno. In aggiunta, il ministro ha proposto di assumere da 1 milione a 1 milione e 300.000 “tecnici per la gestione del Pnrr” (non risulta peraltro che questa cifra sia desunta da una rigorosa analisi dei fabbisogni). Si tratterebbe di assunzioni a tempo determinato, destinate alla gestione dell’adozione dei provvedimenti previsti dal Pnrr e finanziate coi fondi di esso, da dismettere successivamente. Solo il 40%, a detta del ministro, potrebbero essere mantenute in pianta stabile, e quindi finanziate mediante imposte. Siamo molto al disotto delle cifre da noi suggerite, che sono già assai basse, e non vi sono indicazioni sui metodi di finanziamento.


Gli autori della ricerca

Filippo Barbera, Professore ordinario di Sociologia, Università di Torino; Maria Luisa Bianco, Professoressa ordinaria di Sociologia, Università del Piemonte Orientale; Giancarlo Cerruti, Professore associato di Sociologia, Università di Torino; Bruno Contini, Professore emerito di Economia, Università di Torino; Guido Ortona, Professore ordinario di Economia, Università del Piemonte Orientale; Francesco Pallante, Professore associato di Diritto Costituzionale, Università di Torino; Francesco Scacciati, Professore associato di Economia, Università di Torino; Pietro Terna, Professore ordinario di Economia, Università di Torino; Dario Togati, Professore associato di Economia, Università di Torino; Willem Tousijn, Professore Ordinario di Sociologia, Università di Torino


A cura della redazione
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