Roberto Cornelli

Professore di Criminologia presso l’Università di Milano-Bicocca
4 Febbraio 2020 |
Paolo Morati

“Sicurezza è anche questione di comunità”. Queste in sintesi le parole di Roberto Cornelli, Professore di Criminologia presso l’Università di Milano-Bicocca, che in questa intervista affronta il tema della sicurezza dal punto di vista storico e strategico.

Partiamo tracciando un andamento della criminalità in Italia e delle relative criticità…

A partire dal Novecento gli omicidi sono via via diminuiti e soprattutto dagli anni ‘90 questo è avvenuto in modo drastico raggiungendo oggi il punto più basso della storia italiana per ogni centomila abitanti (dato 2017: 0,59 – vedi figura sotto). Se guardiamo invece ai reati contro il patrimonio si è dapprima registrato un forte aumento negli anni ‘70, per stabilizzarsi nel decennio successivo e calare negli anni ‘90 rimanendo tuttavia su livelli elevati. Ecco quindi che la questione criminale, non solo in Italia, non riguarda la violenza letale, che anzi è al suo minimo storico e continua a diminuire, ma i reati contro il patrimonio che hanno dinamiche fortemente legate alle condizioni peculiari dell’economia: il furto costituisce il primo anello di una catena che costruisce mercati illegali in cui i beni circolano su binari paralleli a quelli legali per poi entrare nell’economia legale. Si pensi al furto di automobili ma anche alla contraffazione di borsette e capi d’abbigliamento. Non vanno tuttavia dimenticati quei reati poco denunciati su cui spesso non c’è attenzione mediatica e politica come l’usura, sempre più decisiva come modalità attraverso cui le organizzazioni criminali s’infiltrano nell’economia legale. 
Due questioni sono spesso collegate all’andamento della criminalità: l’aumento della presenza di stranieri e la percezione d’insicurezza. Ogni discussione sul primo argomento, che spesso si risolve nell’attribuire colpa agli immigrati dell’aumento della criminalità, dovrebbe tenere conto di due dati: innanzitutto gli stranieri residenti diventano una presenza in aumento e con una consistenza apprezzabile solo a partire dagli anni Novanta, in un periodo in cui gli omicidi calano sensibilmente e i reati contro il patrimonio, dopo un ventennio di aumento, si stabilizzano e calano leggermente; in secondo luogo la loro maggiore presenza in carcere rispetto agli italiani deriva più da una loro maggiore difficoltà ad accedere a misure non detentive e dalla loro posizione più bassa nella catena criminale e più esposta a controlli di polizia (si pensi allo spaccio al dettaglio di sostanze stupefacenti) che da una semplice maggiore propensione alla criminalità. 
Rispetto alla paura della criminalità, occorre dire innanzitutto che gli ultimi due decreti sicurezza poggiano la loro legittimità (trattandosi di decretazione d’urgenza) non tanto sull’aumento della criminalità quanto sull’aumento dell’insicurezza e dunque sull’esigenza di rassicurare la popolazione. Non essendo possibile smentire i dati ufficiali sugli andamenti della criminalità, sembra che l’unico modo per continuare a legiferare sulla sicurezza sia poggiarne la necessità sull’aumento delle paure. Ma anche in questo caso, i dati di ricerca restituiscono un’altra immagine della realtà: le indagini svolte da ISTAT (vedi figura sotto) ed Eurostat (ma anche da altri istituti di ricerca privati) mostrano come la paura della criminalità negli ultimi decenni sia rimasta pressoché stabile, nonostante i tanti allarmi sicurezza che hanno interessato il dibattito pubblico da metà degli anni Novanta a oggi. Insomma, una volta detto che le paure delle persone vanno prese sul serio, è fondamentale però considerarle per come si articolano zona per zona e non come generica domanda di sicurezza, descritta come sempre più in un aumento e a cui rispondere con misure emergenziali. 

Come viene oggi classificata la criminalità?

Il codice penale (il codice Rocco promulgato in epoca fascista) rappresenta il testo fondamentale che indica le fattispecie di reato. Ma nel corso degli anni si sono susseguite diverse legislazioni (per esempio nei campi ambientale, tributario e urbanistico) che hanno regolato nuovi settori inserendo nel contempo nuove tipologie di reato. Ciò ha portato all’estensione di una penalità extra-codicistica che si scontra con la visione illuministica, di Cesare Beccaria innanzitutto, di avere un unico codice dei delitti e delle pene che fosse semplice e chiaro. In questo senso si parla di ipertrofia del diritto penale, a indicare anche una tendenza al continuo aumento della punitività delle sanzioni penali: già il codice Rocco prevedeva pene piuttosto elevate per alcuni reati contro il patrimonio, ma a partire dal primo pacchetto sicurezza firmato dal Governo di Massimo D’Alema nel 2001 non c’è quasi intervento in campo penale che non preveda un aumento delle pene, con la finalità di aumentare l’efficacia deterrente del sistema penale. Si tratta tuttavia di un’illusione: diversi studi indicano come il continuo aumento di pene detentive, oltre a determinare squilibri irragionevoli nel sistema sanzionatorio, non abbia alcuna efficacia nell’orientare i comportamenti sociali, creando anzi difficoltà nella gestione della sanzione penale in concreto.

 

Arriviamo quindi all’applicazione della criminologia al contesto urbano ai giorni nostri…

Sono stati proprio i criminologi a interrogarsi per primi sul tema della sicurezza urbana, a partire però da diversi punti di vista. In effetti, scuole di pensiero criminologico diverse hanno prodotto riflessioni che hanno orientato politiche di segno opposto.
Una prima tendenza, che ha orientato le iniziative del forum italiano ed europeo per la sicurezza urbana (rete di città italiane ed europee che condividono ricerche e politiche in questo ambito), ha proposto di affrontare i problemi di sicurezza urbana attraverso l’integrazione di una pluralità di attori, politiche e strumenti (per es. attraverso i contratti locali di sicurezza e i protocolli d’intesa). Questo approccio si fonda sull’idea che esista un coacervo di problemi – sociali, di convivenza, di vivibilità, di degrado, di percezione e anche di violazione delle leggi – e che non tutti debbano e possano essere affrontati con politiche di ordine pubblico e repressive. Si tratta di una politica che ha già prodotto molti risultati, spesso non raccontati a livello politico e mediatico, che attiva forze diverse a livello di quartiere capaci di intervenire, per esempio, sulle vittime di reato in carne e ossa, che possono contare su assistenza di tipo sociale, psicologico ma anche materiale, sulla conflittualità urbana in condomini, scuole e parchi, e sulla fiducia istituzionale attraverso l’introduzione di forme di polizia di prossimità.
Un secondo approccio punta invece ad attribuire al sindaco sempre più poteri di disciplinamento della vita urbana, costruendo nei fatti forme di diritto amministrativo punitivo. L’introduzione dei Daspo urbani è un esempio lampante di una tendenza che retoricamente continua a richiamarsi all’esperienza di Rudolph Giuliani, il sindaco sceriffo di New York, e alla molto discussa (anche per la sua tenuta empirica) teoria delle ‘finestre rotte’, in base alla quale la polizia dovrebbe intervenire sulle condizioni di degrado per evitare che queste scivolino in situazioni criminali.

 

In tutto questo qual è il ruolo della videosorveglianza?

La videosorveglianza si inquadra in un approccio che tende a delegare alla tecnologia il ruolo di garante della sicurezza, sottraendolo in parte alle istituzioni e in parte alla comunità. Mi spiego meglio. Quando viene sollevato un problema di convivenza o si verifica un episodio spiacevole o viene commesso un reato la reazione immediata è quella di richiedere l’installazione di un sistema di videosorveglianza, e questa richiesta, che incrocia sia l’urgenza di fare qualcosa e subito da parte delle istituzioni sia la credenza che la tecnologia sia di per sé una soluzione efficace, impedisce di pensare ad altri tipi di interventi educativi, sociali, di sviluppo di comunità, amministrativi o di polizia, per i quali si inizia a nutrire diffidenza per i tempi più dilatati di attuazione.
Nel campo della prevenzione, al contrario, l’efficacia degli interventi dipende molto spesso dalla capacità, nel medio e lungo periodo, di modificare le modalità di interazione sociale tra le persone. Gli strumenti tecnologici hanno in effetti un’efficacia limitata e solo in alcuni casi circoscritti. Esistono studi internazionali, come ad esempio quelli svolti nella città di Glasgow in Scozia, che dimostrano come i sistemi di CCTV non possano influire su fenomeni come lo spaccio di stupefacenti (è sufficiente spostarsi in zone cieche per non essere ripresi), o per le risse e altri reati violenti (difficilmente nelle situazioni di scaturigine di questi comportamenti si fa caso all’esistenza o meno di telecamere) e certamente non hanno alcuna funzione di controllo preventivo se posizionati in luoghi estremamente ampi come parchi o piazze. Al contrario, possono avere una qualche efficacia se posizionati nei parcheggi al fine di contrastare i furti di automobili, in luoghi di passaggio, come i sottopassaggi e gli ingressi di edifici pubblici e per limitare l’incidentalità stradale in alcuni punti particolarmente a rischio.
Diversamente, la videosorveglianza può essere uno strumento utile per l’investigazione criminale, dopo che un reato è stato commesso, evitando il rischio però che porti a un impoverimento della capacità investigativa delle forze dell’ordine che hanno bisogno di testimonianze da parte delle persone (e dunque la loro fiducia) per ricostruire gli avvenimenti e procedere con le indagini. Certamente questo discorso non vale per quei reati che avvengono tra le mura domestiche, così come i sistemi di videosorveglianza non possono fornire di per sé la prova di un furto in abitazione se semplicemente vengono ripresi l’ingresso o l’uscita di un presunto colpevole da un edificio. Infine, laddove si predispongano sistemi di analisi avanzata, che includono anche alert proattivi, resta comunque indispensabile il ruolo dell’uomo, sia rispetto alla segnalazione a priori di anomalie che di successiva indagine.
Bisogna in ogni caso considerare che ogni politica pubblica, anche quella nel campo della sicurezza urbana, può contare su risorse economiche limitate. Occorre dunque capire come e dove investire con il giusto equilibrio. Se s’investe tutto in tecnologia si perde l’occasione di dedicare risorse alle attività sociali, educative, comunitarie, di disegno urbano e quindi alle relative iniziative di sicurezza integrata. Con un’espressione, il ricorso massiccio e acritico alle tecnologie della sicurezza rischia di far perdere la capacità di lettura della città e di gestione differenziata dei problemi, che è la base per dare efficacia alle politiche di sicurezza urbana.


Paolo Morati
Giornalista professionista, dal 1997 si occupa dell’evoluzione delle tecnologie ICT destinate al mondo delle imprese e di quei trend e sviluppi infrastrutturali e applicativi che impattano sulla trasformazione di modelli e processi di business, e sull’esperienza di utenti e clienti.

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