Vuoto a rendere all’italiana

Fino agli anni Ottanta eravamo i più bravi a riusare le bottiglie, poi la plastica ha sostituito il vetro e siamo finiti all’usa e getta. Oggi potremmo riprenderci il primato e anche i contenitori di PET si possono riusare. La prima sperimentazione però non ha funzionato e ci bagnano il naso… Se copiassimo dagli altri?
6 Luglio 2020 |
Michele Ciceri

In Italia la reintroduzione del vuoto a rendere delle bottiglie di vetro e plastica PET è stata un fallimento pressoché totale. Limitata alle sole bottiglie di acqua e birra, discrezionale per gli esercenti, poco chiara sul compenso legato alla cauzione, caricato di oneri e procedure scoraggianti per ristoranti e bar, pochissimi esercenti hanno aderito alla sperimentazione lanciata nel 2017 dal Governo con l’allora ministro Gian Luca Galletti. Peccato, perché l’idea era buona e mirava a restituire al nostro Paese un primato che deteneva nei decenni passati, quando la pratica del vuoto a rendere – che allora riguardava solo le bottiglie di vetro – era la normalità.
Forse però è il caso di riprovarci, forti di un clima culturale ancora più green rispetto a due anni fa e senza i tentennamenti che hanno fatto abortire il primo tentativo. In fondo si tratta solo di guardarsi attorno e fare come fanno gli altri paesi, dopo ne parliamo.


Perché la sperimentazione ha fatto flop

Prima vediamo di capire cosa ha impedito il decollo della sperimentazione Galletti. Il regolamento emanato dal ministero dell’Ambiente è entrato in vigore il 10 ottobre 2017. Si trattava di una misura legata al ‘Collegato ambientale’ approvato nel 2015 finalizzata alla "alla prevenzione dei rifiuti di imballaggio monouso attraverso l’introduzione, su base volontaria per un anno, di un sistema di restituzione di bottiglie riutilizzabili" contenenti "birra o acqua minerale". I punti di forza del provvedimento erano nelle parole “prevenzione dei rifiuti”, cosa diversa dal riciclo, con un richiamo esplicito all’economia circolare che ne costituiva l’intera impalcatura, e nel “bottiglie riutilizzabili”, dunque non soltanto di vetro. I punti deboli, probabilmente, erano quel “base volontaria” che ne indeboliva l’applicazione e la sottolineatura “birra o acqua minerale” che ne limitava l’applicazione a un ambito molto circoscritto.

Nella pratica il regolamento diceva questo: quei bar, ristoranti, alberghi o altri punti di consumo che intendono farlo, possono riutilizzare gli imballaggi – bottiglie in vetro, plastica o altri materiali – oltre dieci volte prima che questi diventino scarti. Con delle limitazioni: solo contenitori per birre e acqua con un volume compreso tra gli 0,20 e gli 1,5 litri, e un meccanismo basato sul sistema del deposito cauzionale in una scala compresa tra 0,05 e 0,30 euro a imballaggio. All’acquisto dell’imballaggio-bottiglia piena il consumatore versa una cauzione che viene restituita nel momento in cui viene reso l’imballaggio-bottiglia usato. Nel mentre gli esercenti aderenti all’iniziativa possono esporre un simbolo all’ingresso dei propri locali per avvertire i clienti della novità. Parlando esplicitamente di ristoranti, bar ed esercizi, la misura sperimentale di un anno riguardava solo il consumo fuori casa, dunque una quota parte del totale che però negli ultimi anni si è ingrossata molto. Il ministro era ben convinto e sottolineava così: “un Paese proiettato nell’economia circolare come l’Italia non può che guardare con interesse a una pratica come il vuoto a rendere, già diffusa con successo in altri Paesi. Questo decreto dà una possibilità a consumatori e imprese di scoprire una buona pratica che aiuta l’ambiente, produce meno rifiuti e fa risparmiare soldi”.
Cosa non ha funzionato? A parte i citati ‘punti deboli’, è mancata chiarezza sul deposito cauzionale, da 5 a 30 centesimi, e sul fatto che questo importo non deve fare prezzo ma essere recuperato dal consumatore. E ancora, il provvedimento prevedeva talmente tanti oneri per bar e ristoranti che li ha scoraggiati ad aderire.
Una critica si leggeva anche sul blog del Movimento 5 Stelle, promotore della misura legislativa con il deputato Stefano Vignaroli, nei giorni stessi in cui il regolamento entrava in vigore: “Il vero difetto di questa legge è che il Governo non si è degnato di riconoscere alcun incentivo per invogliare gli esercenti ad aderire. L’esercente dovrebbe pagare dunque una cauzione, compilare dei moduli e trattenere i vuoti in attesa del distributore, senza nemmeno avere uno sconto TARI o di altro tipo. Sarebbe questa la misura ideale per incentivare gli esercenti: dover gestire e ritirare una tonnellata in meno di vetro fa risparmiare soldi al comune. Perché non dividere questo risparmio con l’esercente e con il distributore, terminali di questo processo virtuoso?”.
Non manca chi ha sottolineato che forse il fallimento della sperimentazione del ‘vuoto a rendere all’italiana’ era ciò che qualcuno voleva nel governo di allora, ma è acqua passata. Dicevamo che forse è il caso di riprovarci con regole più chiare e vincolanti, un maggiore coinvolgimento dei cittadini e anche delle associazioni di categoria.


Il vuoto a rendere non è una novità

Un contenitore in vuoto a rendere è quello che una volta svuotato dev’essere reso al fornitore, così che possa essere riutilizzato. Può essere una bottiglia di vetro, ma anche in plastica PET. Per le bottiglie in PET si arriva fino a 20 riutilizzi, addirittura 40 per quelle in vetro. In genere, chi acquista il prodotto in vuoto a rendere paga una cauzione che viene resa al momento della restituzione.

La vetrofania da apporre in bar,  ristoranti, alberghi  o altri punti di consumo che intendono riutilizzare gli imballaggi con vuoto a rendere

Quando le bottiglie erano di vetro e l’acqua minerale si comprava dal ‘birraio’ il vuoto a rendere veniva naturale. Consumatore e produttore avevano interesse reciproco al buon funzionamento del metodo: gli acquirenti erano incentivati alla riconsegna dei vuoti per non perdere la cauzione versata e i produttori, recuperando i contenitori vuoti, risparmiavano sull’approvvigionamento dei nuovi. Con questa modalità le bottiglie venivano riutilizzate molte volte evitando la produzione di grandi quantità di rifiuti. In Italia eravamo tra i più bravi in questo modo di fare.
È stata l’introduzione della plastica come contenitore a cambiare le cose. Le caratteristiche della plastica quali la leggerezza e nel contempo resistenza, la semplicità di lavorazione rispetto ad altri materiali unite alla eliminazione del costo di trasporto, movimentazione e stoccaggio dei vuoti hanno reso le bottiglie in materiale plastico più vantaggiose per i produttori; nel contempo i consumatori sono stati attratti dall’eliminazione della cauzione e l’onere di riconsegna dei vuoti. Si è imposto quindi sul mercato il modello usa e getta del vuoto a perdere. Questa modalità più sbrigativa, oltre a essere applicata ai contenitori in plastica, parallelamente si è estesa anche ai contenitori in vetro contribuendo all’incremento della produzione di rifiuti vetrosi destinati al riciclo, i cui costi e inquinamento sono superiori rispetto al riuso dei contenitori integri. Lo stesso vale per la plastica PET che può essere sì rigenerata, ma a un costo più alto rispetto al riuso.


Quali sono i benefici?

Con il vuoto a rendere si ottiene, per prima cosa, una drastica riduzione dei rifiuti prodotti in quanto viene incentivato il riutilizzo dei contenitori che, alla fine della loro vita utile, possono comunque essere riciclati e impiegati come materia prima secondaria, cioè utilizzabili per produrre nuovi contenitori o altre merci. Nella tesi di Alessandro della Rocca discussa al dipartimento di impresa e management dell’università LUISS si legge che il vuoto a rendere “consente, chiaramente, una decisa riduzione dell’approvvigionamento di materia prima per la realizzazione di nuovi contenitori. Il vantaggio non è solo economico ma produce un impatto positivo per l’ambiente riducendo l’estrazione di materie prime, contribuendo all’alleggerimento della problematica gestione dei rifiuti ed infine, particolare non trascurabile, riducendo i rifiuti in plastica che finiscono nei mari ed oceani. Il sistema vuoto a rendere si integra nel modello di economia circolare perché in questo modo le aziende produttrici sono responsabili dell’intero ciclo di vita dei prodotti: dalla produzione e distribuzione ma anche al recupero e riciclaggio. L’introduzione del sistema vuoto a rendere contribuirebbe anche alla creazione di nuove opportunità lavorative: raccolta, recupero, movimentazione ed eventuale trasformazione dei rottami”.


Meglio con il vetro

Dicevamo che il vuoto a rendere riguarda anche i contenitori in plastica PET, tuttavia è favorendo il ritorno alle bottiglie di vetro che se ne possono cogliere al meglio i vantaggi. Il caso più evidente è quello dell’acqua minerale, come ha messo in evidenza l’indagine di Domenico Affinito e Michela Gabanelli pubblicata a gennaio su Dataroom del Corriere della Sera.
A parte leggere che siamo i campioni mondiali di consumo di acqua minerale in bottiglia, scopriamo che quasi nove su dieci sono in plastica e solo il 10/15% finisce negli impianti di riciclo, il resto va nei termovalorizzatori, in discarica o disperso nell’ambiente, spesso in mare, dove diventano microplastiche. Il peso medio di una bottiglia vuota è 40 grammi e ciò significa che produciamo 369,6 mila tonnellate di plastica all’anno solo per l’acqua, equivalenti a 5,87 milioni di barili di petrolio in un anno (per fare un kg di Pet servono 2 kg di petrolio).
Impossibile non condividere la considerazione che emerge dall’articolo: se vogliamo bere acqua minerale dovremmo scegliere quella in vetro, che è più salubre (l’esposizione delle bottiglie di plastica al sole ne altera la qualità) e inoltre perché questo tipo di vetro viene quasi completamente riciclato. Però oggi solo il 16% degli 11 miliardi di bottiglie è in vetro. Considerato poi che solo l’8/10% è vuoto a rendere (la fonte citata è il ministero dell’Ambiente), e che la stessa bottiglia lavata e sterilizzata, può essere riutilizzata fino a 30 volte, ha più senso acquistare bottiglie con vuoto a rendere. Dataroom sottolinea che il sistema vuoto a rendere delle bottiglie di vetro nel nord Europa rappresenta il 70% del mercato, con un impatto ambientale più basso. Nella modalità vuoto a perdere, dopo aver depositato una bottiglia nella campana del riciclo, nel bidone condominiale o nel container alla piattaforma comunale, ci voglio almeno tre viaggi in camion prima che arrivi alla vetreria per la fusione in un forno a 1.400 gradi. Poi la bottiglia nuova torna al produttore di acqua per l’imbottigliamento, su un altro camion ovviamente. Col vuoto a rendere invece la stessa bottiglia passa dal consumatore al deposito e poi al produttore che la sterilizza e la riusa. Metà dei passaggi, che vuol dire migliaia di km in meno.
Per non parlare dei costi di produzione. Per produrre un kg di vetro riciclato serve un kg di petrolio, il 75% bruciato nel processo di fusione. Calcolato che nel 2018 in Italia abbiamo riciclato 1,62 miliardi di bottiglie di acqua minerale che equivalgono a circa 1,06 miliardi di kg di vetro, il conto è presto fatto: il vuoto a rendere ci avrebbe fatto risparmiare 5,9 milioni di barili di petrolio, circa 950 mila euro al giorno.
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Le percentuali di vetro con vuoto a rendere

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Come fanno gli altri?

Le cose fatte bene basterebbe copiarle. In Germania il Pfandsystem è regolamentato fin dal 1991, e ha permesso di ottenere una riduzione del 90% dei rifiuti di vetro e 80% di quelli in plastica. In Danimarca è obbligatorio per le bibite vendute in bottiglia di vetro e in Norvegia per le lattine di alluminio. Anche Estonia, Finlandia, Croazia, Svezia, Svizzera, Ungheria e Repubblica Ceca hanno adottato il vuoto a rendere con ottimi risultati. Il sistema scelto dai tedeschi è articolato in sezioni a seconda della tipologia di contenitore e del tipo di materiale. Il procedimento prevede che i contenitori vuoti possono essere riconsegnati nei punti vendita mediante appositi raccoglitori automatici. La regola prevede che tutti gli esercizi che vendono una determinata bibita sono obbligati ad accettarne i vuoti, anche se la specifica bottiglia non è stata acquistata da loro. Non essendoci un limite di inserimento molte persone, indigenti e bisognose, raccolgono le bottiglie vuote sia dai cestini che quelle abbandonate per terra e le riconsegnano per ricavarne un guadagno. Ovviamente il vuoto va reso pulito e il contenitore non deve essere danneggiato. I contenitori rotti non possono essere riusati a sono destinati al riciclo, che nel caso del vetro è comunque un processo meno energivoro e inquinante rispetto alla lavorazione della materia prima.
E nel resto del mondo? Negli Stati Uniti, dove il nome del vuoto a rendere è BottleBill, secondo gli ultimi dati i rifiuti da materiali di imbottigliamento sono diminuiti di 70 per cento. In Australia ancora meglio, oltre l’85 per cento.


L’esempio lituano

È in Lituania, un piccolo paese baltico dell’Unione Europea con una popolazione di meno di tre milioni di abitanti, che il sistema del vuoto a rendere si è integrato nel tessuto sociale ed economico con ottimi risultati. Lo descrive Dario Longo su Great Italian Food Trade (GIFT), portale di informazione indipendente su cibo e dintorni.
A febbraio 2016 il governo della Lituania ha implementato un sistema di deposito con cauzione, di importo pari a 0,10 euro. Obiettivo: incentivare i consumatori a partecipare attivamente al riciclaggio degli imballaggi alimentari, mediante restituzione dei contenitori per bevande in vetro e in plastica e metallo non ricaricabili (di capienza 0,1-3 litri).
I tassi di restituzione hanno superato ogni aspettativa, fino a raggiungere in due anni il 93% sulle lattine, l’82% sul vetro e il 92% sul PET. Partendo da una situazione che per il PET rasentava il 34%. A fronte di una media UE del 42%.
Come funziona il sistema? Il ministero dell’Ambiente lituano, su proposta delle industrie del settore delle bevande, ha introdotto ad aprile 2013 il processo di deposito degli imballaggi. Ha poi avviato la riforma normativa e nel marzo 2015 ha attribuito all’ente Užstato Sistemos Administratorius (USAD), senza fini di lucro, la gestione del nuovo sistema di deposito. USAD è stata fondata dalle associazioni lituane dei produttori di birra e di acqua minerale, nonché dell’associazione delle imprese commerciali lituane, in una logica di responsabilità estesa del produttore.
Il gestore del sistema è responsabile di compensazione dei depositi, logistica e commercializzazione dei materiali raccolti. Oltre alla gestione trasparente dei dati, la comunicazione, l’educazione delle parti interessate e soprattutto dei consumatori. Le sue entrate derivano dai depositi non riscossi, la vendita di materiali raccolti e le commissioni amministrative pagate dai produttori di bevande.
La raccolta segue un modello di restituzione al dettaglio. I negozi di dimensioni superiori a 300 mq e quelli nelle aree rurali ove si vendano bevande sono tenuti a ricevere i contenitori usati, gli altri ne hanno facoltà. A tal fine, gli esercenti sono stati dotati di Reverse Vending Machines (RVMs), chioschi dotati di connettività internet da collocare all’interno dei supermercati o installare all’esterno dei negozi, in relazione alle loro dimensioni. I consumatori ricevono il rimborso del deposito sotto forma di contanti o credito per la spesa.
Il modello di finanziamento del sistema lituano è a sua volta innovativo, poiché l’investimento nell’infrastruttura è stato eseguito dallo stesso gruppo industriale che ha aggiudicato il bando per la fornitura delle RVMs, il leader globale TOMRA (Norvegia). I negozi che ne fanno richiesta ricevono un RVM gratuito. USAD riconosce al negozio una commissione di gestione, in proporzione ai ‘vuoti’ raccolti (anche in assenza di RVM). E il fornitore delle RVMs rientra nell’investimento attraverso la commissione ricevuta da USAD sui materiali raccolti.
Un fattore di successo in Lituania è stata la comunicazione. Dopo meno di un anno dall’introduzione del vuoto a rendere, sottolinea Dario Longo, il 99,8% dei cittadini era a conoscenza, l’89% lo aveva utilizzato almeno una volta (il 58% in più occasioni), il 78% lo considerava utile e necessario. E già nel primo anno, il tasso di raccolta complessivo dei contenitori per bevande è passato dal 33 al 74,3%, quasi venti punti oltre il target fissato da USAD (55%).


La gerarchia dei rifiuti

Ridurre, riutilizzare, riciclare, incenerire, depositare in discarica. Nasce da un’idea dell’olandese Ed Lansink, professore e parlamentare oggi ottantaseienne, la gerarchia della gestione dei rifiuti che sta alla base dell’economia circolare. Era il 1979, non esattamente ieri, quando il professor Lansink parlò per la prima volta della sua scala fatta di cinque scalini a scendere per importanza: in alto, primo passo, la riduzione dei rifiuti; poi il riuso di tutti gli oggetti che possono essere riusati; terzo passo il riciclaggio dei materiali e quarto l’incenerimento di ciò che non può essere riciclato. Solo alla fine, ultima spiaggia, il deposito in discarica. Alla base della scala di Lansink non c’è una valutazione scientifica, per esempio un’analisi del ciclo di vita delle varie opzioni, ma piuttosto una visione lungimirante dei limiti fisici del pianeta Terra che impone un uso efficiente delle risorse. Semplice ed efficace.


Economia circolare nella UE

Nell’Unione europea si producono ogni anno più di 2,5 miliardi di tonnellate di rifiuti. L’UE sta aggiornando la legislazione sulla gestione dei rifiuti per promuovere la transizione verso un’economia circolare, in alternativa all’attuale modello economico lineare. Ma che cos’è esattamente l’economia circolare? Quali sono i motivi e i vantaggi che spingono verso tale cambiamento? L’economia circolare è un modello di produzione e consumo che implica condivisione, prestito, riutilizzo, riparazione, ricondizionamento e riciclo dei materiali e prodotti esistenti il più a lungo possibile. In questo modo si estende il ciclo di vita dei prodotti, contribuendo a ridurre i rifiuti al minimo. Una volta che il prodotto ha terminato la sua funzione, i materiali di cui è composto vengono infatti reintrodotti, laddove possibile, nel ciclo economico. Così si possono continuamente riutilizzare all’interno del ciclo produttivo generando ulteriore valore. I principi dell’economia circolare contrastano con il tradizionale modello economico lineare, fondato invece sul tipico schema ‘estrarre, produrre, utilizzare e gettare’. Il Parlamento europeo ha chiesto ai governi dei paesi membri l’adozione di misure anche contro l’obsolescenza programmata dei prodotti, strategia propria del modello economico lineare. (Fonte: Parlamento europeo)
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Il pacchetto sull’economia circolare

Il pacchetto sull’economia circolare varato nel 2018 dal Parlamento europeo stabilisce due obiettivi comuni per la UE. Il primo è il riciclo di almeno il 55% dei rifiuti urbani entro il 2025. Questa quota è destinata a salire al 60% entro il 2030 e al 65% entro il 2035. Il secondo obiettivo è il riciclo del 65% dei rifiuti di imballaggi entro il 2025 (70% entro il 2030) con obiettivi diversificati per materiale, come illustrato nella tabella sotto.
Le nuove regole riguardano anche le discariche e prevedono un obiettivo vincolante di riduzione dello smaltimento in discarica. Entro il 2035 al massimo il 10% del totale dei rifiuti urbani potrà essere smaltito in discarica. (fonte: Parlamento europeo)
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Michele Ciceri
Giornalista professionista, ghostwriter, speaker, coordinatore di eventi e convegni. Energia, Ambiente, Green ICT, Terzo Settore. Ufficio Stampa Cancro Primo Aiuto Onlus. Già redattore e caporedattore in cronaca.

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