Renato Drusiani

Advisor Tecnico di Utilitalia
25 Febbraio 2020 |
Paolo Morati

In questa intervista Renato Drusiani, Advisor tecnico di Utilitalia – la Federazione che riunisce le Aziende operanti nei servizi pubblici dell’Acqua, dell’Ambiente, dell’Energia Elettrica e del Gas – ripercorre alcune tappe fondamentali della storia dell’universo idrico.

Introduciamo il ruolo storico che l’acqua gioca per la nostra civiltà, quanto è fondamentale e quali vere e proprie battaglie si sono svolte attorno ad essa, e identifichiamo le radici in termini di sistemi idrici dedicati ai diversi usi, con particolare riferimento al territorio italiano…

Da sempre l’uomo ha l’esigenza di approvvigionarsi di acqua, per bere e placare la propria sete ovviamente, ma anche per coltivare i campi e allevare bestiame. Già nel V secolo avanti Cristo. lo storico greco Erodoto narrava nelle sue Storie di emissari persiani che chiedevano come dono da parte degli stati che sarebbero diventati vassalli, proprio terra e acqua. Su di essa si sono poi combattute vere e proprie battaglie, e pensiamo anche alle tensioni recenti tra la Turchia e gli stati confinanti sulla realizzazione delle dighe sui fiumi Tigri e Eufrate, oppure a quanto accade tra Cina e India relativamente alla regolazione dei corsi d’acqua originati dall’Himalaya.
Dal punto di vista delle infrastrutture idriche non si può non parlare del ruolo degli antichi romani, i cui insediamenti hanno lasciato ampia testimonianza di sistemi anche complessi per garantire approvvigionamento idrico delle città. I loro grandi acquedotti si sono diffusi in tutto l’Impero insieme al proprio modello ripetibile, per cui li ritroviamo in Grecia, Francia, Inghilterra… del tutto simili a quelli di Roma. In breve, hanno inventato, ma anche applicato e migliorato metodologie già in uso presso altre civiltà come quella etrusca e greca, realizzando una serie di opere per una risorsa considerata sacra come l’acqua e rispondendo anche ad esigenze igieniche particolarmente curate per l’epoca come le fognature e gli impianti termali. Con la caduta dell’Impero, e l’inizio del Medioevo, quest’ultimo tema ha perso di importanza e così anche le terme romane come molti templi sono state destinate a cave di marmo o per trasformarli in altri edifici (ad esempio chiese). Il Rinascimento ha ripreso poi in mano le tecniche dei romani, procedendo sia a nuove realizzazioni che alla riqualificazione, come ad esempio l’acquedotto Paolino che parte dai monti Sabatini e alimenta il Fontanone del Gianicolo, e che non è altro che una ristrutturazione di quello realizzato dall’imperatore Traiano.

Può spiegare, più nel dettaglio, qual è stata l’evoluzione tecnica che ha portato ai sistemi attualmente in uso?

Partiamo dalle opere di ingegneria civile destinate al trasporto dell’acqua. Sino al diciassettesimo e diciottesimo secolo, esse non erano molto diverse da quanto realizzato dai romani in quanto si basavano su canali in leggera pendenza e serbatoi per far fronte a picchi di consumo. I sistemi di pompaggio erano comunque rari, azionati dapprima dalla forza muscolare di uomini o animali (ma questo avveniva anche con i Romani), e poi dall’energia delle macchine a vapore. Queste pompe non erano di norma impiegate nei sistemi acquedottistici, le ritroviamo soprattutto nell’approvvigionamento individuale da pozzo e nel drenaggio dell’acqua dal fondo delle miniere. Sono stati comunque realizzati fra il XVII e XVIII secolo sistemi di pompaggio importanti come quelli che alimentavano la città di Toledo o la reggia di Versailles ma la affidabilità e la continuità di funzionamento non era il loro forte. Occorre attendere la seconda rivoluzione industriale (fine del XIX secolo) quando nuovi materiali e nuove tecnologie quali la pompa centrifuga ed il motore elettrico consentiranno di realizzare sistemi di distribuzione estesi, non più limitati dalla orografia del terreno. Nel frattempo si è iniziato ad affrontare in termini scientifici il tema della potabilità dell’acqua, ciò è avvenuto grazie agli studi sui batteri di Louis Pasteur. È vero che già in epoca romana Sesto Giulio Frontino aveva fornito nella sua opera sugli acquedotti di Roma utilissime indicazioni per individuare sorgenti affidabili come la limpidezza e la freschezza delle acque e il buon stato di salute degli abitanti della zona, questo tuttavia era un approccio empirico utile ma non certo sufficiente. Grazie agli studi sui batteri ci si è resi conto che l’aspetto esteriore dell’acqua non era necessariamente garanzia di potabilità per cui sono stati introdotti sistemi di filtrazione seguiti da disinfezione, inizialmente con cloro e ozono. Le epidemie in particolare di tifo e colera che periodicamente imperversavano nelle aree urbane sino a tutto il XIX secolo sono state praticamente debellate.
Ecco allora che, una volta risolti i problemi tecnici relativi al trasporto ed al pompaggio dell’acqua, è la qualità dell’acqua a essere diventata il tema predominante. Ciò in quanto sono comparse nuove sostanze inquinanti e contaminanti, e la comunità internazionale si è data delle regole soggette a periodico aggiornamento, come quelle su cui sta proprio lavorando in questo periodo l’Unione Europea.

Questo per quanto riguarda l’acqua potabile. Cosa possiamo invece dire delle acque reflue?

Anche i Romani avevano importanti sistemi fognari che allontanavano liquami ed acque piovane dalle aree urbane, ma il vero salto di qualità si è compiuto a seguito di un’epidemia di colera nel 1854 a Londra, partita dal quartiere di Soho per via di un riversamento di liquami nella falda acquifera da cui si approvvigionava il quartiere. Da lì si sono avviate dei metodi di trattamento delle acque reflue, con l’introduzione alla fine del diciannovesimo secolo di grandi vasche di lagunaggio. L’acqua faceva decantare una parte di solidi sospesi e, grazie all’esposizione al sole e ai raggi ultravioletti subiva una pur blanda disinfezione prima di essere scaricata in fiumi o mari. Da lì sono poi stati via via introdotti altri sistemi ed un quadro normativo via via più complesso. Nel nostro Paese questo tema ha avuto una prima razionale regolamentazione con le “Norme per la tutela delle acque dall’inquinamento” del 10 maggio 1976, la cosiddetta Legge Merli.

Cosa prevedeva questa normativa e qual è stata poi la sua evoluzione?

All’epoca la gestione dell’acqua era in carico ai Comuni, e ciascuno di essi (circa diecimila) aveva un suo depuratore, anche uno affiancato all’altro. Questa situazione è perdurata fino a quando è stata introdotta la riforma del servizio idrico, la cosiddetta Legge Galli del 5 gennaio 1994, n. 36. Disposizioni in materia di risorse idriche, con l’introduzione del Servizio Idrico Integrato, poi ridefinito nel 2006 con il decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152. In breve si è deciso che l’acqua non venisse gestita da ogni singolo comune ma da un soggetto operante su una scala più ampia come il bacino idrografico, questo consentiva di razionalizzare il trattamento delle acque sia quelle reflue che quelle potabili riducendo il numero degli impianti necessari per svolgere il servizio. Si è così ridotta la frammentazione, da 11.000 gestori dedicati a potabile, fognatura e depurazione a 300 gestori a dimensione industriale che gestiscono un sistema che serve la gran parte della popolazione nazionale (oltre il 70%). Rimane sì una quota di popolazione ancora servita da una pletora di piccoli comuni (circa 2000) e non a caso è proprio in quelle aree che si registrano le maggiori carenze nella gestione del servizio idrico.

Passando quindi al presente, qual è il contesto ambientale in cui si inquadra oggi il tema dell’acqua a livello globale e italiano, e l’impatto che i cambiamenti climatici hanno su di esso? Quali dati possiamo citare a supporto? Possiamo parlare di emergenza idrica?

Quale che siano le cause dell’aumento delle temperature sul nostro Pianeta, è comunque evidente come il clima sia cambiato. Già nel 2017 in Italia c’è stato un nuovo campanello di allarme fronte siccità e il 2019 sta già presentando forti analogie, in sostanza si tratta di un fenomeno non più erratico e casuale ma un problema sistematico di cui dobbiamo tenere conto e prepararci ad affrontare. Ecco che una nostra indagine evidenzia come si possa farlo con nuove opere in quanto l’infrastruttura attuale non è sufficiente, in special modo in alcune Regioni.
In Italia tra acquedotti e sistemi di depurazione si spendono in media tra i 30 e i 40 euro pro capite all’anno, ma in realtà se osserviamo alcune gestioni in economia o aziende speciali alla fine tale investimento scende a pochi euro, laddove altre realtà ne spendono anche 60. Una situazione a macchia di leopardo con la certezza che dove sono presenti imprese industriali vengono fatti gli investimenti necessari, destinati soprattutto al fronte depurazione, sul quale il nostro Paese è in ritardo. Teniamo anche conto che sono già diverse le procedure di infrazione e le sanzioni che l’Italia ha ricevuto da parte della Commissione Europea relativamente all’adeguamento degli impianti alle norme europee rilasciate nel 1991. Nel contempo, però, non bisogna dimenticare gli acquedotti. Occorre un’opera di riduzione delle perdite intervenendo su tubazioni che non sono stare rinnovate con la frequenza necessaria. Una tubazione ha una vita media tra i 30 ai 40 anni ma sul nostro territorio oltre un quarto superano questi valori di età. Inoltre va condotta un’attenta campagna di ricerca delle perdite, tenendo conto che un tubo nuovo ha inizialmente una perdita media tra il 2% e il 4% del totale, ma arriva in pochi anni a perdere tra il 10% e il 25% se manca una manutenzione adeguata. Ecco che gli ultimi dati Istat parlano di una media di acqua dispersa del 47,9%, contro un 10-15% della Germania. Un rischio ancor più alto pensando ai fenomeni in corso che sono destinati ad accentuare la crisi idrica. Contemporaneamente si può pensare di introdurre anche qui metodi alternativi, come i dissalatori già indispensabili nei Paesi desertici. È evidente che se in Italia le condutture fossero mantenute in piena efficienza questa esigenza non ci sarebbe e la dissalazione potrebbe dare una risposta ad alcune località del Sud e nelle Isole e laddove dove possono esistere deficit idrici dovuti a squilibri stagionali fra consumi e disponibilità. Una best practice da considerare potrebbe essere l’esperienza della città di Barcellona. In questa città, ove si registra lo stesso andamento climatico di tante città italiane, sono presenti due importanti impianti di dissalazione che lavorano a pieno regime d’estate durante la stagione turistica.

Quali sono invece le problematiche che i gestori oggi si trovano a dover affrontare sui diversi versanti dello scenario d’uso delle risorse idriche, e i macro e micro trend che individua come maggiormente critici su tali versanti?

Uno dei problemi, a cui ho già accennato in parte, è legato al tardivo recepimento delle direttive europee sulle acque reflue avvenuto peraltro in modo difforme. Pensiamo alla 271 del 1991 che è stata recepita in Italia, in modo incompleto solo nel 1999, e per la quale scontiamo già in partenza diversi anni di ritardo. Qualcosa che non accade con l’acqua potabile, che si presenta di buona qualità sul nostro territorio, e nonostante le difficoltà legate alla variabilità orografica e geologica. Abbiamo anche una discreta disponibilità idrica a monte con le Alpi, e lungo la penisola con gli Appennini che sono punti di cattura delle nubi che arrivano dall’Oceano Atlantico, per cui tutto sommato la piovosità è superiore a quella di altri Paesi, con i vantaggi che ne conseguono.

Qual è la vostra posizione rispetto al tema del Servizio Idrico Integrato, i vantaggi che questo può produrre, i nodi ancora da sciogliere e le proposte in merito per migliorare in generale lo scenario idrico in Italia?

Il Servizio Idrico Integrato ha rappresentato una razionalizzazione che prima non esisteva, superando la frammentazione che caratterizzava i precedenti schemi gestionali. Certo la legge Galli ha oramai 25 anni di vita e andrebbe rivista per alcuni aspetti, ad esempio completando il ciclo idrico urbano con la gestione delle acque meteoriche che rappresentano tuttora un problema non adeguatamente gestito (ce ne accorgiamo soprattutto quando piove). Anziché completare e migliorare mi sembra che in questo momento si voglia far passare una proposta di normativa che tende a riportare la gestione alle logiche comunali di mezzo secolo fa con riflessi sulla capacità di rinnovo delle reti e di completamento del sistema depurativo (le gestioni comunali o simili investono un decimo procapite rispetto alle gestioni industriali). I primi ad essere danneggiati sarebbero evidentemente i cittadini, d’altra parte la grande complessità che il tema acqua presenta e sempre più presenterà richiede un approccio moderno rispondente a logiche industriali e non solo assistenziali.


Paolo Morati
Giornalista professionista, dal 1997 si occupa dell’evoluzione delle tecnologie ICT destinate al mondo delle imprese e di quei trend e sviluppi infrastrutturali e applicativi che impattano sulla trasformazione di modelli e processi di business, e sull’esperienza di utenti e clienti.

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