Next Generation EU

Un piano ambizioso che mira a disegnare il futuro dell’Europa per i prossimi decenni
30 Aprile 2021 |
Valerio Imperatori

Next Generation Eu è un fondo nato in emergenza, dopo i primi mesi duri della pandemia, ma chiamarlo solo Recovery Fund, come spesso avviene, è riduttivo: è un insieme di risorse messe a disposizione per stabilire la direzione di quella che sarà, appunto, la prossima generazione dell’Unione europea e non solo un aiuto per ricostruire quanto è stato distrutto dalla pandemia. Già solo correre ai ripari sembra una sfida titatinica perché i danni sono enormi: secondo l’esecutivo Ue, l’Italia ha chiuso il 2020 con un calo del Pi dell’8,8% (rispetto al -9,9% ipotizzato a novembre), ma per il 2021 è previsto un rimbalzo del 3,5% a fronte del 4,1% atteso. La ripresa ci sarà ma non si sa quando ed è questo il nodo da sciogliere al più presto evitare che tutto il tessuto imprenditoriale frani. Il timore più grande è la fine del blocco dei licenziamenti e degli ammortizzatori sociali come la cassa integrazione, che potrebbe portare a una catena deflagrante di fallimenti. Per questo diventa essenziale guardare agli aiuti europei e puntellare il sistema Italia. Il Next Generation Eu è un fondo istituito alla fine del vertice europeo del luglio 2020 che copre gli anni 2021-2023 e sarà vincolato al bilancio 2021-2027 dell’Ue, che ha varato per questo arco temporale misure del valore di 1824,3 miliardi di cui 750 sono proprio per questi investimenti e altri 1074,3 miliardi per il QFP (Quadro Finanziario Pluriennale). Lo scopo è arginare i danni causati dalla pandemia, rilanciando l’economia attraverso investimenti nell’economia verde e nel digitale. I fondi saranno erogati attraverso 390 miliardi di euro di sovvenzioni e 360 miliardi di euro in prestiti a lunga durata e dovranno essere rimborsati entro il 2058. Uno strumento storico, che non ha altri precedenti e che è addirittura quattro volte superiore al piano Marshall del secondo dopoguerra. Tra i vari vincoli ci sono anche quelli temporali: il 70% delle sovvenzioni sarà impegnato nel 2021 e 2022. Il restante 30% sarà impegnato nel 2023. Le modalità di assegnazione per gli anni 2021-2022 saranno in base al tasso di disoccupazione e per l’anno 2023 in base alla perdita cumulativa del Pil reale osservata nel periodo 2020-2022. Il 30% dei fondi, inoltre, è destinato al cosiddetto Green New Deal, in conformità con l’accordo di Parigi sul clima. All’Italia, focolaio d’Europa della pandemia, dovrebbe arrivare la fetta più grande: 209 miliardi ripartiti in 81,4 miliardi di aiuti a fondo perduto (di cui 65,5 saranno quelli del Recovery and Resilience facility per finanziare il piano per la ripresa) e 127,4 miliardi di prestiti che incideranno direttamente sul debito dello Stato. Non sono soldi gratis, quindi, e il problema è che bisogna spenderli bene e subito. Su questo, negli anni scorsi, l’Italia non è stata efficiente. Ad esempio, dal 2014 all’anno scorso, quindi in sette anni, abbiamo ricevuto come fondi strutturali europei 44 miliardi siamo riusciti a usarne, secondo la Corte dei Conti europea, appena il 30,7%.
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Il primo scoglio da superare è il calendario

Il Recovery plan, o Piano nazionale di Ripresa e Resilienza, che il primo ministro Mario Draghi ha ereditato dal suo predecessore Giuseppe Conte, è un programma relativo a investimenti, piani e riforme che il governo intende realizzare per rilanciare il Paese. I 209 miliardi che l’Europa ha destinato all’Italia sono sottoposti a condizionalità e cronoprogramma precisi. “Signori politici prendete un calendario e guardate – incita l’economista Mario Deaglio – venerdì 30 aprile dobbiamo presentare il Recovery plan a Bruxelles, vale oltre 200 miliardi. Non è mai più successo da dopo la seconda guerra mondiale con il piano Marshall di avere tanti soldi. Il rischio, se non rispettiamo la scadenza, è o perderli o comunque essere messi sotto tutela e quindi non poter decidere più noi come usarli”. Nel merito delle proposte fin’ora emerse, Deaglio è categorico. “Si sentono dire tante cose ma mi sembra che si sappiano solo quali sono i mattoni che si vogliono usare e non qual è il disegno della casa. Un esempio? Dire che bisogna riparare tutte le gallerie o costruire il ponte sullo Stretto di Messina sono due mattoni ma non sono pezzi del futuro, sono parti del passato che dobbiamo mettere a posto. Il progetto del futuro è come sarà la casa Italia nel 2030. A questo serve il Next Generation Ue”. “Come economista – prosegue Deaglio – credo che dobbiamo riuscire ad avere un tasso di crescita del Pil stabile intorno al 2% all’anno per garantire sviluppo e poter ragionare pensando alle generazioni future. Se siamo sotto non recuperiamo niente e quindi questi soldi tenderemo a spenderli male: avremmo molte cose che funzionano meglio ma, in un mondo che si sta muovendo molto rapidamente, noi rischiamo di restare indietro”. Un terzo punto che sottolina l’accademico torinese è che “bisogna dire la verità agli italiani: non si può continuare per sempre con i ristori. Per ora hanno consentito a milioni di persone di non andare in rovina ma sono tutti soldi che sono stati prestati allo Stato. Ringraziamo la Banca centrale europea che ha sottoscritto tutte le nostre emissioni di buoni del Tesoro quando non c’era nessun altro a farlo. Questo non può continuare. Poi non è che non bisogna più dare soldi a chi non ne ha ma bisogna darli sulla base dei progetti. Anche per le imprese più piccole. Anche per i negozi e i pubblici esercizi che poi sono tra le attività più colpite. È un compito complicato? Certo, ma abbiamo una struttura che sono gli uffici del lavoro che possono essere potenziati. Un progetto poi deve essere dedicato ai giovani e una proposta può essere quella di impegnarli nella protezione civile: loro potrebbero imparare in molti ambiti, ad esempio dalla messa in sicurezza del territorio alla riorganizzazione degli archivi delle procure, e darsi da fare per riavviare il nostro Paese. Queste sono le premesse che non vengono mai dette ma sono fondamentali”.
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Le riforme: pilastro essenziale della ricostruzione

“Non possiamo pretendere che le cose cambino se continuiamo a fare le stesse cose”. Lo ripeteva Albert Einstein, un monito che sembra calzare a pennello per giudicare l’attuale fase decisionale in cui è sempre più evidente non solo che la politica non riesce a tenere il passo con il cambiamento imposto dalla crisi, ma anche che le regole istituzionali e di governo si dimostrano sempre più inadeguate. Oltre alla necessità di grossi fondi, tutti concordano sul punto che per far decollare progetti che ormai sono sulla carta da tempo, sullo sfondo c’è la necessità di profonde riforme istituzionali per superare due grandi punti deboli attuali: non è garantito il doveroso legame tra eletti ed elettori e non esiste un rapporto costruttivo e non conflittuale tra le diverse competenze istituzionali, si tratti delle competenze tra Stato e Regioni così come quelli tra politica e magistratura. Per questo una delle prime necessità e sfide che si trova davanti il Governo è attuare quelle riforme costituzionali che ormai tutti hanno la consapevolezza siano non più differibili ma che fin’ora nessuno è riuscito a portare a termine, dalla pubblica amministrazione alla giustizia. Passi peraltro fondamentali perché i fondi europei del piano Next Generation Ue possano essere prima ottenuti e poi produttivamente spesi. “La cosa fondamentale – spiega Giorgio Barba Navaretti, professore di Economia Politica all’Università degli Studi di Milano, direttore scientifico del Centro Studi Luca d’Agliano e Distinguished Visiting Faculty a SciencesPo di Parigi – oltre alla spesa e ai temi, è lavorare sulle riforme. La possibilità di usare questi fondi in modo efficace dipende proprio da qui. Ad esempio se non si fa la riforma della giustizia e si riducono i tempi dei processi è difficile che il Next Generation Eu possa funzionare da catalizzatore per attrarre nuovi investimenti”. Per l’economista “abbiamo di fronte sfide fondamentali, per questo la dimensione strategica è importante e non basta dire come si spendono i soldi. Quello che manca nella versione attuale del piano è una dimensione strategica, questo vorrebbe dire avere una visione di che impatto può avere questo piano non solo nell’immediato ma anche tra 10 anni. È una scommessa fondamentale per la crescita del nostro Paese che comunque anche prima dell’epidemia non era competitivo quanto avrebbe dovuto. Dobbiamo passare da una logica di ristoro a una logica di ripresa. Avremo problemi seri quando finiranno gli ammortizzatori sociali, inevitabilmente perderemo una parte del sistema produttivo ma questa parte non può essere sostenuta ulteriormente mentre bisogna supportare e rafforzare le misure di orientamento per la parte delle imprese più sana e in grado di crescere. Sarà un tema molto difficile di transizione verso una nuova ripresa ma l’obiettivo deve essere il lungo periodo”. E proprio le mancate riforme sono un tema che incide sulla disomogeneità del Paese, dove anche la ripresa sarà affrontata con velocità diverse. “Dico una cosa molto brutale: non credo che il gap tra i territori sia destinato a ridursi con questo piano. C’è una polarizzazione sempre maggiore tra nord e sud quindi è chiaro che gli incentivi per la digitalizzazione delle imprese, ad esempio, sono molto più efficaci in un contesto in cui ci sono imprese che crescono rispetto a una contesto in cui la distanza dalle nuove tecnologie è troppo ampia da colmare. So che è brutale ma credo che sia così e dipenda da tanti fattori, a partire anche dall’efficienza delle pubbliche amministrazioni. Sarà inevitabile spendere molto nelle aree più depresse ma deve essere chiaro che il ritorno sarà più alto per gli investimenti fatti nelle aree vitali”, spiega ancora Barba Navaretti. Gli esempi di soldi europei stanziati ma non spesi, soprattuto al sud, sono centinaia tra ricorsi in tribunale, aumento del budget necessario a realizzarle le opere, burocrazia che blocca ogni passaggio. Ma anche le Regioni del centro nord, in media, non superano il 60% di spesa dei fondi disponibili. La Regione che fa meglio è l’Emilia Romagna, seguita dal Friuli Venezia Giulia e dal Piemonte.
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I capitoli previsti dal governo

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che ora dovrà essere affinato prima della consegna ufficiale a Bruxelles mira a mobilitare oltre 300 miliardi di euro, il cui fulcro è rappresentato dagli oltre 210 miliardi delle risorse del programma Next Generation Ue, integrate dai fondi stanziati con la programmazione di bilancio 2021-2026. Le priorità strategiche individuate dal Ministero dell’Economia e delle Finanze sono: digitalizzazione e innovazione, transizione ecologica e inclusione sociale. Indicano i principali nodi strutturali su cui intervenire per far ripartire la crescita e migliorare radicalmente la competitività dell’economia, la qualità del lavoro e la vita delle persone, tracciando le sfide che devono guidare la direzione e la qualità dello sviluppo dell’Italia. Allo stesso tempo, gli interventi del Piano saranno delineati in modo da massimizzare il loro impatto positivo su tre temi sui quali si concentrano le maggiori disuguaglianze di lungo corso: la parità di genere, la questione giovanile e quella meridionale. Gli assi portanti del Piano sono investimenti e riforme. Crescono ulteriormente, in virtù del loro effetto moltiplicativo sulla produzione e sull’occupazione, le risorse destinate agli investimenti pubblici, ora superiori al 70% del totale, mentre Transizione 4.0 rappresenta un fortissimo stimolo a quelli privati. Le riforme di contesto che accompagnano le linee di intervento del Piano, in sintonia con le Raccomandazioni al Paese da parte dell’Unione Europea, mirano a rafforzare la competitività, ridurre gli oneri burocratici e rimuovere i vincoli che hanno rallentato la realizzazione degli investimenti o ridotto la loro produttività. Tra queste, la riforma della Giustizia e della P.A., la riforma di alcune componenti del sistema tributario. La transizione, verde e digitale è al centro di questo progetto ambizioso, che vuole disegnare l’Italia del futuro, portandola sulla frontiera dello sviluppo, a livello europeo e mondiale. La previsione, secondo il governo, è che questo vasto insieme di investimenti e di ambiziosi progetti di riforma si tradurrà in un concreto e sensibile aumento della crescita e dell’occupazione rispetto allo scenario base: al 2026, anno finale del Recovery Plan, l’impatto positivo sul Pil sarà pari a circa 3 punti percentuali.
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Il dettaglio delle missioni

I 46,3 miliardi destinati alla missione Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura (che salgono a 59 miliardi considerando anche i fondi della programmazione di bilancio) rappresentano la seconda voce di spesa, per oltre il 20% delle risorse complessive, e puntano a realizzare gli obiettivi della modernizzazione del Paese, attraverso la rivoluzione digitale nella P.A. e nel sistema produttivo, le riforme di sistema (Giustizia e P.A.) e gli investimenti in turismo e cultura. All’interno di questa missione, ben 26,55 miliardi confluiscono nella componente Digitalizzazione, innovazione e competitività del sistema produttivo, con l’obiettivo di favorire la transizione digitale delle imprese, con particolare attenzione alle Pmi. Uno sforzo molto importante, per quasi 12 miliardi, è destinato alla componente Digitalizzazione, innovazione e sicurezza della P.A. La terza componente è dedicata al Turismo e Cultura 4.0, due dei settori più colpiti dalla pandemia. Con 8 miliardi di risorse, si mira ad incrementare il livello di attrattività del sistema turistico e culturale del Paese attraverso la modernizzazione delle infrastrutture, materiali e immateriali.
La missione con il più ampio stanziamento di risorse è quella legata alla Rivoluzione verde e transizione ecologica, alla quale sarà destinato più del 31% dell’ammontare complessivo del Piano, per 69,8 miliardi di euro, (a cui si aggiungono i fondi della programmazione di bilancio per un totale di oltre 79 miliardi) per intensificare l’impegno dell’Italia in direzione degli obiettivi ambiziosi dell’European Green Deal e creare nuove occasioni di crescita e sviluppo per il nostro Paese. All’interno di questa missione, un ingente insieme di risorse riguarda la componente dedicata all’Efficienza energetica e riqualificazione degli edifici, fondamentale per l’abbattimento delle emissioni, con quasi 30 miliardi di euro per interventi sugli edifici pubblici (come interventi di risanamento di costruzione di nuovi edifici, con priorità a scuole, ospedali ed edilizia popolare e altri interventi di riqualificazione, efficientamento energetico e digitalizzazione) e di efficientamento dell’edilizia privata, in particolare con l’estensione del superbonus 110%. La terza missione si concretizza in due componenti, per un ammontare complessivo di risorse pari a 32 miliardi di euro (oltre 33 miliardi con i fondi della programmazione di bilancio), oltre il 14 per cento delle risorse del Piano. La prima componente della missione, per un valore di 28,3 miliardi, è relativa all’Alta velocità ferroviaria e manutenzione stradale 4.0 e prevede la realizzazione di opere in particolare sulla rete ferroviaria. La seconda componente, dedicata all’Intermodalità e alla logistica integrata prevede un programma nazionale di investimenti per il miglioramento di competitività e sostenibilità ambientale del sistema portuale, in modo da sviluppare i traffici collegati alle grandi linee di comunicazione europee e valorizzare il ruolo dei Porti del Sud Italia, con un impegno di oltre 3,5 miliardi di euro.
La quarta missione, Istruzione e ricerca, ha un impegno di oltre 28 miliardi di euro, (salgono a 34,04 con i fondi di sviluppo e di programmazione di bilancio) ed è focalizzata sul Potenziamento delle competenze e diritto allo studio (con risorse per oltre 16,7 miliardi), e sul passaggio dalla Ricerca all’impresa, con oltre 11,5 miliardi. La missione Inclusione e Coesione prevede un impegno di 27,6 miliardi di risorse del Next Generation Eu, ai quali si aggiungono oltre 55 miliardi della programmazione di bilancio 2021-2026, per quasi 85 miliardi complessivi. Con questo capitolo si affronta il tema delle Politiche per il lavoro, per complessivi 12,6 miliardi del Next Generation Eu e 24,6 miliardi della programmazione 2021-2026. Altri 10,8 miliardi sono destinati a “Infrastrutture sociali, Famiglie, Comunità e Terzo Settore” per supportare situazioni di fragilità sociale ed economica e sostenere le famiglie e la genitorialità. Alla terza componente, Interventi speciali di coesione territoriale, sono assegnati 4,1 miliardi di risorse del Next Generation Eu. Essa prevede il rafforzamento della Strategia nazionale delle aree interne rilanciata dal Piano Sud 2030, con interventi sulle infrastrutture sociali e misure a supporto dei giovani e della transizione ecologica. Infine, 20,7 miliardi, dei quali 19,7 di risorse del Next Generation Eu, vengono destinati a rafforzare il nostro sistema sanitario, intervenendo su due direttrici: lo sviluppo di una rete territoriale sempre più vicina alle persone e l’ammodernamento delle dotazioni tecnologiche del SSN.
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I dubbi

“Il Pnrr (Recovery Plan) stilato dal governo Conte è un libro delle idee, non sempre chiarissime, senza alcuna struttura operativa. Mettiamo da parte a questo punto l’ennesima dimostrazione di inefficienza del nostro sistema politico-amministrativo e speriamo nel nuovo governo, soprattutto considerando l’immensa esperienza di Draghi e la sua conoscenza dei meccanismi di funzionamento della Commissione. Per ora abbiamo dimostrato ancora una volta di non aver capito che l’Europa ci misura non sui “sogni politici” ma sulla capacità reale di realizzare le cose”, spiega l’economista Giuseppe Russo, direttore del Centro Einaudi. L’economista ammette che il compito di Conte non è stato per nulla facile. “Il piano pandemico dei tedeschi è un decimo del nostro e poi sono abituati già a spendere le risorse europee e quello che devono presentare ora è inferiore rispetto al loro budget abituale. Noi, invece, siamo abituati a spendere poco e ora abbiamo il compito di spendere almeno sei volte quanto facciamo di solito”. Un problema è che mancano all’interno della pubblica amministrazione le competenze per utilizzare queste risorse. In poche parole mancano funzionari in grado di scrivere correttamente bandi che non si prestino ad interpretazioni o a ricorsi. In molti casi, anche se non ci sono le capacità interne negli uffici, non ci si affida nemmeno a consulenti o professionisti che potrebbero supportare i Comuni. Secondo il sociologo Luciano Abburrà servirebbe che servizi e amministrazioni pubbliche offrissero opportunità di lavoro connotate da qualità più elevata. “Quest’ultima proposizione potrebbe suonare non in linea con un senso comune che in Italia guarda con poca considerazione all’occupazione pubblica, rappresentata come pletorica, se non parassitaria. Invece – dice Abburrà – se guardiamo agli altri grandi paesi europei quello che emerge è una nostra specifica minor dotazione di occupati nei servizi pubblici più importanti e nelle amministrazioni pubbliche centrali e periferiche”. E questo è un limite anche nella gestione dei fondi europei. “Dall’Ue ci è già arrivato il monito che senza un adeguato piano di riforme è impossibile spendere una massa economica assolutamente fuori scala rispetto a qualsiasi intervento straordinario mai realizzato nel nostro Paese. La riforma del sistema amministrativo, la revisione del codice degli appalti e la riforma della giustizia civile rappresentano la base su cui misurare il governo Draghi e hanno rappresentato il principale fallimento del governo Conte. Sono le precondizioni necessarie per rendere realizzabile il Pnrr e trasformarlo da “libro dei sogni” in un’opportunità per il Paese”, commenta ancora Russo. Queste le condizioni minime, ma si può e si deve essere più ambiziosi. “Il documento va migliorato nei contenuti e nella struttura, non tanto nelle sfide e nelle missioni (queste ricalcano le linee guida dettate dalla Commissione europea) quanto sulla struttura di governo, sulla definizione del livello territoriale di programmazione e attuazione e sulle linee di intervento. I primi due punti sono strettamente collegati tra loro, giustamente anche la Conferenza Stato-Regioni ha in pratica rimesso al Governo il documento che nulla dice sul coinvolgimento delle Regioni stesse nei processi di attuazione del Piano e meno ancora dice in merito alle città. Possibile che non si sia compreso che questa è la principale opportunità per trasformare i nostri centri metropolitani? Che per ottenere questo risultato sia necessario progettare piani integrati di sviluppo urbano? Che non ci sono ricette valide universalmente per tutti i territori?”, si chiede Russo. Un esempio per l’economista può essere Napoli, una area metropolitana che conta circa tre milioni di cittadini, ha bisogno di un disegno unico che non può non partire dal capoluogo, ma che integri l’intera area e definisca non solo gli interventi necessari e immediati ma anche un’idea di città che possa essere realizzata nell’arco dei prossimi 10 o 15 anni. “Esempi di trasformazioni urbane di grande impatto degli ultimi venti anni quali Manchester, Barcellona o Marsiglia sono nate tutte da un’idea unica di crescita declinata con un quadro di intervento organico. Come integrare un’area così vasta e variegata, una cittadinanza così disomogenea, un tessuto produttivo cresciuto con uno spontaneismo assolutamente disorganico? Queste le domande cui mi aspetterei di trovare risposte operative all’interno del Pnrr, che rappresenta un’opportunità unica per ridisegnare una città che ha bisogno di investimenti nell’ordine di diversi miliardi di euro. Il Piano dovrebbe definire come integrare le specificità territoriali con le necessarie linee di intervento nazionali, riconoscendo un peso differente di intervento in quelle aree che hanno maggiore necessità di trasformazione. Non è una mera difesa degli interessi meridionali ma non può esserci sviluppo senza un riequilibrio del Paese, soprattutto in merito alle infrastrutture materiali e immateriali. Il piano, nella versione precedente, nulla diceva sulla distribuzione delle risorse, segnale pericoloso per i territori più deboli: una maggiore caratterizzazione territoriale degli interventi certamente sarebbe un ottimo segnale”. Un limite sottolineato da più esperti è che non è considerato un “Piano Italia” che, partendo dalla trasformazione dei sistemi economici territoriali, sviluppi una prospettiva economica globale. “Transizione digitale e transizione verde sono due meravigliosi propositi, ma rimangono due titoli. Per riempirli di significati è necessario capire come si declinano sia a livello territoriale sia, trasversalmente, all’interno dei singoli sistemi economici del Paese”, affonda ancora Russo.
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Il confronto con le altre nazioni

Il paragone con le altre nazioni è impietoso. Se l’Italia è stata la nazione più colpita dalla pandemia, e ha ricevuto quindi la maggior parte dei fondi Next Generation EU per la ripresa dal coronavirus, le altre non sono state da meno. Questo si riflette chiaramente guardando nel dettaglio come i primi 6 Paesi per risorse disponibili dopo l’Italia hanno deciso di spendere i fondi comunitari. Dei 750 miliardi previsti, dopo l’Italia a cui ne spettano circa 208, ci sono i 162 della Spagna e i 71 della Polonia. Ci sono poi i 41 della Francia, i 35 della Romania, i 32 della Grecia, a cui seguono i 31 del Portogallo e i 27 della Germania. Non tutti spenderanno l’intero importo, mentre altri addirittura includeranno risorse interne per arricchire i piani di investimento. La Francia, ad esempio, nel suo France Relance, allocherà circa 100 miliardi, più del doppio dei contributi ricevuti. Altri Paesi sono invece più cauti, come il Portogallo che investirà solo 14 dei 30 miliardi a fondo perduto e farà valutazioni sull’utilizzo dei 15,7 miliardi di prestiti. La Polonia, invece, non offre spunti precisi ma indica solo che investirà in energia, ambiente, digitalizzazione, trasporti e infrastrutture. I suoi fondi saranno comunque vincolati dalla violazione dello stato di diritto, clausola che è stato oggetto di dibattito negli scorsi mesi anche dall’Ungheria. La voce più ricorrente è la strategia nazionale per l’idrogeno, indicata da Germania e Francia, con quest’ultima che investirà soprattutto nella ristrutturazione termica degli edifici a idrogeno. Se si considerano le energie rinnovabili in generale, ci sono anche la Grecia, che ci investirà quasi il 60% dei fondi, e la Polonia. Spazio poi alla digitalizzazione: da quella dei dati all’economia, passando per la sanità e gli incentivi alla piccole e medie imprese, i 7 Paesi spenderanno complessivamente oltre 30 miliardi di euro per accelerare il cambiamento. Alla sanità, tra vaccinazioni e piani di ammodernamento, ogni Paese dedica una parte cospicua: oltre 25 miliardi tra tutte. Naturalmente non potevano mancare i piani di incentivo per la mobilità elettrica, con la Germania che include un miliardo da stanziare per gli autobus con trazione a energie alternative, il rinnovo del trasporto ferroviario e della flotta navale in chiave ecologica; la Francia, che mette 5,9 miliardi su mobilità quotidiana e ferrovie, e la Grecia, che include investimenti per la realizzazione di infrastrutture per le auto elettriche. Comuni alle nazioni anche gli investimenti in formazione, educazione e in capitale umano, principalmente portati avanti da Grecia (che ha stanziato 8,3 miliardi) e Spagna (con oltre 25,5 miliardi). Dalla Grecia c’è anche un piano di ammodernamento delle infrastrutture di telecomunicazione europee, con l’introduzione della nuova rete 5G e il collegamento delle isole con la rete elettrica continentale. Alla fine le priorità su cui investire sono per tutti le stesse, le ha indicate l’Europa. Il problema è la concretezza. Ad esempio il France Relance è un documento di 290 pagine in cui, a differenza del Pnrr italiano che è solo un elenco generico di quanti soldi si useranno per fare cosa, si specificano dettagliatamente tutte le misure verranno adottate settore per settore, con anche un cronoprogramma per verificare lo stato di avanzamento dei progetti. Inoltre è già attivo dal 3 settembre, giorno in cui il governo francese lo presentò ufficialmente. I progetti già operativi sono più di 200 e gli interessati possono inviare, attraverso il sito dedicato, i propri progetti per ottenere i finanziamenti e seguire l’iter su un calendario. Molto diverso da quello che per ora ha fatto l’Italia presentando un piano di poco più di 160 pagine in cui non c’è nessuna indicazione concreta. Un altro paragone? Dei 100 miliardi complessivi di cui beneficerà la Francia (oltre ai 40 che mette l’Ue 60 miliardi li stanzia la nazione stessa) 11 già sono stati impegnati per interventi mirati e nove sono già stati spesi. “Abbiamo iniziato a lavorare al piano già in primavera, durante il primo lockdown – ha spiegato Olivia Grégoire, sottosegretaria francese all’Economia – durante l’estate l’abbiamo messo a punto e alcune parti, come quella dedicata ai giovani, sono state operative già da settembre 2020. I due obiettivi sono gestire l’emergenza e contrastare la crisi da un lato e, dall’altro, preparare la Francia del 2031. È ora che dobbiamo gettare le basi per sviluppare i settori che domani saranno strategici come l’idrogeno”. Inoltre non sono state create affollate task force di esperti come in Italia, ma uffici territoriali che verificano l’attuazione dei progetti nelle singole aree.
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Italia e Spagna sorvegliate speciali

Dopo che sono stati superati gli scontri e i veti a Bruxelles sull’approvazione del Recovery Fund, diversi economisti hanno lanciato un nuovo allarme in Europa, rivelando al Financial Times le proprie preoccupazioni riguardo Italia e Spagna che storicamente rappresentano anche i due peggiori per i livelli di spesa dei fondi europei. Questa tendenza sta portando diverse preoccupazioni sulla capacità di utilizzare in maniera efficace i soldi del Next Generation EU a causa di ostacoli burocratici e amministrativi. Il tasso di assorbimento degli investimenti del bilancio UE per Italia e Spagna è rispettivamente del 40% e del 39% per il periodo 2014-2020, con il Belpaese che nel 2019 ha impiegato il 30,7% dei fondi erogati. Un livello peggiore nello stesso periodo è stato registrato solo dalla Croazia. Per la Spagna, invece, i problemi sono di altro genere. Il Governo guidato dal socialista Pedro Sanchez ha approvato un decreto ad hoc per snellire la macchina burocratica e riuscire a sfruttare al meglio i miliardi di euro in arrivo da Bruxelles. Tuttavia, Madrid già negli anni scorsi ha messo in campo diversi investimenti in infrastrutture come autostrade e treni ad alta velocità. Progetti che in genere sono in grado di assorbire la maggiore quantità dei denari pubblici. Per il prossimo futuro, quindi, Sanchez dovrà approvare un ampio volume di programmi di piccole dimensioni, con ulteriori difficoltà di gestione. Per far fronte a questa sfida che si presenta, sarà necessaria in tempi stretti una profonda riforma della pubblica amministrazione. All’Italia non bastano più i sogni, serve concretezza ma ha anche tanti aspetti positivi su cui contare a partire da tutte le imprese solide e innovative che stanno investendo in questo momento di crisi proprio perché credono che questo stop and go provocato dalla pandemia sia avvenuto non solo in tutte le città italiane ma anche all’estero. Può essere come una safety car in F1 da cui trarre vantaggio, approfittarne per fare delle scelte strutturali e cercare di riconquistare il gap passato.

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