Bergamo tra solidarietà e sviluppo

Intervista a Giorgio Gori, Sindaco della città lombarda.
15 Giugno 2022 |
Valerio Imperatori

Dici Bergamo e non riesci a evitare di pensare a quelle immagini che scorrevano quotidianamente sul piccolo schermo ormai più di due anni fa: camion militari carichi di bare, la città completamente deserta, la disperazione di coloro che avevano perso un proprio parente. Accadeva nel marzo 2020. Oggi la città ha recuperato la sua vitalità, il suo fascino e si presenta all’Europa esaltando una delle sue più importanti caratteristiche: l’essere solidale. Non a caso la città orobica è stata proclamata Capitale Europea del Volontariato 2022. Incontro il suo Sindaco Giorgio Gori e scelgo volutamente di non rievocare quei tragici mesi che lui avrà raccontato moltissime volte e forse è arrivato il momento di andare oltre, di continuare nell’impegno di ricucire quelle lacerazioni sociali che a Bergamo, come in tutto il nostro Paese, si sono inevitabilmente consumate. Anche perché Giorgio Gori è per sua natura un ottimista e cerca in ogni momento di trasferire alla sua comunità fiducia e serenità.
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Emergenza pandemica prima, poi le conseguenze economiche e sociali, poi la guerra in Ucraina che sta determinando processi inflazionistici che colpiscono il potere d’acquisto di ciascuno di noi, l’aumento dei costi energetici, carenza di materie prime, aziende che fanno fatica a reggere il peso di questa nuova crisi. Il sindaco è quella figura istituzionale più vicina alle comunità e al territorio alla quale tutti si rivolgono soprattutto nel momento del bisogno. Tra qualche settimana si voterà per le elezioni amministrative in molte città italiane, sono tantissimi gli aspiranti sindaco. Ma oggi qual è il ruolo di un primo cittadino?

È un ruolo a 360 gradi. Innanzitutto nella percezione che ne hanno i cittadini, i quali ai propri sindaci indirizzano le questioni più diverse anche quando queste esulano dalle effettive competenze dell’amministrazione e di chi la guida. Però è così e non serve a molto ricordare a chi a noi si rivolge che le nostre deleghe o competenze sono limitate e su alcuni ambiti non ci è permesso intervenire. Quindi chi si candida a fare il sindaco deve sapere che dal giorno dopo, una volta eletto, chiunque si sentirà autorizzato a ritenerlo responsabile di qualunque cosa accada sul territorio della propria città. Il che rende questo lavoro meraviglioso e allo stesso tempo molto complicato perché esposto a qualunque tipo di evento, criticità, crisi si possa determinare, sia fisicamente nei luoghi amministrati dal Comune sia molto lontano, come nel caso della crisi economica generata dalla guerra in Ucraina. Si tratta anche di rendersi consapevoli, noi sindaci, del fatto che al di là di ciò che possiamo direttamente gestire attraverso i poteri, le strutture, gli uffici, le risorse a nostra disposizione, noi abbiamo un ruolo maieutico nei confronti di ogni altra istituzione le cui decisioni e provvedimenti possano avere un riflesso sulla nostre comunità. A noi tocca comunque essere agenti di soluzione dei problemi, anche quando non ne abbiamo la diretta competenza, agenti di coesione tra le istituzioni, anche quando magari queste ultime si dispongono invece più facilmente al conflitto che non al lavoro coordinato. La successione di eventi anche molto tragici di questi ultimi anni mi ricorda l’allora ministro Giulio Tremonti, il quale usava la metafora del videogioco dove ad ogni livello affronti un nuovo mostro, completi il livello se ne ripresenta un altro, più cattivo, più aggressivo del precedente. Mi sembra di stare in quel film lì, senza però costruire una gerarchia di eventi che ovviamente vedrebbe al primo posto l’evento del Covid per gli effetti collaterali che ha avuto su migliaia di persone. Superata almeno per ora l’emergenza pandemica sono poi arrivate le difficoltà economiche, le chiusure, il bisogno di dare sostegno alle famiglie e alle attività commerciali e artigianali e così via. E poi, quando sembrava che le cose si fossero messe un po’ meglio, altre criticità si affacciano con gravi conseguenze sulle nostre comunità: l’inflazione, aumento dei costi materie prime, la crisi di molte aziende insomma a un periodo non semplice si aggiungono altre complicazioni. Peraltro un sindaco non può che permettersi di affrontare con ottimismo queste situazioni. Con quale altro messaggio possono i sindaci tenere insieme la propria comunità se non infondere fiducia, invitare tutti a impegnarsi per trovare le migliori soluzioni ai problemi? Io così faccio, ma perché mi viene anche tutto naturale, i problemi ci sono vediamo come possiamo risolverli.
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L’Italia è da sempre il Paese dei 100 campanili dove le città grandi o piccole che siano hanno sempre avuto un ruolo importante. Anni fa c’era anche chi ipotizzava il partito dei sindaci. Al di là di queste velleità politiche, non si può tacere il fallimento del tentativo di riformare la presenza istituzionale sul territorio: le Aree vaste, le Città Metropolitane, le Unioni dei Comuni, l’abolizione delle Province e infine la discussione sul ruolo e competenze delle Regioni. Mi sembra regni non poca confusione.

Non ho mai creduto all’idea del partito dei sindaci, tuttavia possono ritrovarsi accomunati da interessi, problemi da affrontare e richieste puntuali rivolte agli altri livelli istituzionali. Ma questo non azzera le diverse aspirazioni politiche che sono sane e consentono un confronto, una dialettica tra le diverse posizioni. Mi piacerebbe invece che ci fossero partiti più attenti alle istanze dei sindaci ma non un partito, più attenti a valorizzare i propri sindaci. Dal punto di vista invece dei temi istituzionali sono assolutamente d’accordo con lei. Ci sono tante cose che non funzionano. Diciamo che l’episodio del referendum del 2016 e della sua bocciatura ha determinato un vero e proprio immobilismo. Tutto si è fermato e questa constatazione smentisce quelli che opponendosi a quel referendum sostenevano che il Parlamento avrebbe in tre mesi approvato una riforma generale degli organismi istituzionali sul territorio. Ma in Parlamento non è più successo nulla. E così si è abbandonato a metà del guado anche le anticipazioni della riforma costituzionale che il governo Renzi con la riforma Delrio aveva avviato e quindi il tema delle Province e di una riorganizzazione dei poteri territoriali.

Quando ragiono su queste cose io mi rifaccio al principio di sussidiarietà scritto nella Costituzione. Per me le competenze vanno, ove possibile, riposte nel complesso di istituzioni più vicine ai cittadini e riportate a livelli superiori, quindi ad un livello istituzionale più esteso, solo laddove le istituzioni del territorio e di enti locali non siano nella condizione di poter affrontare le criticità o semplicemente istanze normativamente più complesse. Questo principio di sussidiarietà è stato completamente stravolto. Posso tranquillamente dire che oggi i Comuni amministrano per parziale e contraddittoria delega da parte degli enti di rango superiore. Quindi sì, io penso che dovremmo dare molto più spazio ai Comuni ovviamente nella consapevolezza che la maggioranza degli stessi, essendo per lo più piccoli, non sono in grado di gestire competenze complesse. Bisogna quindi da un lato favorire e promuovere forme di aggregazione più estese di Comuni salvaguardandone la propria identità culturale, urbana. Non cancellare necessariamente i campanili ma costringerli a lavorare insieme. E dall’altro studiare un ampio trasferimento di competenze per queste realtà.

Un tema che è rimasto in sospeso è quello delle Province che sono state, secondo me superficialmente e in modo populistico, additate da tutte le forze politiche come responsabili di ogni male. Prova ne sia che nei programmi elettorali di tutti i partiti per il voto politico del 2013 era contemplata la cancellazione delle Province. Invece in territori come questo in cui l’estensione e la frammentazione istituzionale sono estreme, noi abbiamo un territorio di 1.100.000 abitanti e 243 comuni, forte è la necessità di un ente solido politicamente investito con adeguate competenze e risorse in grado di tenere insieme questa realtà. E’ pura illusione pensare che si possa farne a meno. Non a caso, secondo me, quell’idea venne avanti dall’allora Presidente del Consiglio Matteo Renzi, già sindaco di Firenze la cui provincia conta 42 Comuni e nel capoluogo risiede più di un terzo degli abitanti della provincia. Idea sposata anche da Graziano Delrio, a sua volta già sindaco di Reggio Emilia il cui territorio provinciale conta poche decine di Comuni. Inoltre è bene ricordare che in Emilia Romagna la cultura delle Unioni dei Comuni è già molto matura. In queste condizioni tutto può essere gestito più facilmente. Ma quelle realtà costituivano delle eccezioni, non rappresentavano il tessuto reale dell’Italia, così come non la rappresentano neppure oggi. Sono sicuro che una provincia come la mia si sia molto indebolita sul territorio, a fronte della perdita di consistenza dell’Amministrazione Provinciale che verrebbe naturale oggi caricare delle responsabilità delle competenze dei vari Ambito Territoriale Ottimale (Ato) per esempio, tutti quegli organismi consortili di scala pure provinciale, trasporti, energia, gestione del ciclo idrico che potrebbero benissimo rientrare sotto il cappello della Provincia, dandole più consistenza.

Per non parlare delle Città Metropolitane che sono il classico papocchio italiano. Ce ne sono solo tre vere città metropolitane in Italia, le altre sono delle grandi città che politicamente si sono viste attribuite questo titolo e ne hanno tratto vantaggio. Perché poi alla fine, quando si siedono al tavolo col governo ottengono quello che alle città medie non viene dato. Ma a sedersi a quel tavolo non ci sono i rappresentanti delle ex Province di Milano, Torino, tanto per citarne alcune, ma siedono il sindaco di Milano, quello di Torino e come normale che sia perorano la causa della propria città. Così si determina una discriminazione anche nella qualità delle relazioni politiche tra città grandi e quelle medie, quando in qualche caso tra queste ultime, penso a Verona, hanno più abitanti che di alcune città metropolitane. Infine, registriamo anche una eccessiva frammentazione regionale dove alcuni di questi enti territoriali sono geograficamente più piccoli della provincia di Bergamo. Che senso hanno? Tutto questo richiederebbe un quadro politico diverso da quello che abbiamo oggi e in questo caso, contraddicendo quello che sostenevo prima, non sono particolarmente ottimista circa la possibilità di affrontare compiutamente queste temi da parte del Parlamento e più in generale della politica, anche perché c’è sempre un’emergenza nuova, la cosa più importante da fare, una situazione non ordinaria con la quale si devono fare i conti.
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Tutto vero ma forse da parte di voi sindaci avrebbe potuto esserci una maggiore capacità di incidere sulle scelte politiche e condizionarne lo sviluppo anche nelle sedi parlamentari.

In realtà c’è un’evidente frattura all’interno degli organismi politici, cioè dei partiti, tra la componente parlamentare e la componente di rappresentanza del territorio. So benissimo che non sto dicendo nulla di nuovo. I sindaci stanno facendo per esempio una battaglia per avere la possibilità del terzo mandato e i parlamentari non vogliono riconoscere e soddisfare questa domanda. I sindaci una battaglia per non essere gli unici a doversi dimettere sei mesi prima se vogliono candidarsi al Parlamento e nulla viene a loro concesso. C’è un ceto politico parlamentare che attraverso le liste bloccate, il gioco delle correnti da diversi anni si autoriproduce anche se adesso con il taglio previsto più di un terzo di loro rimarrà fuori e quindi l’autoriproduzione sarà parziale e inevitabilmente il confronto tra queste due categorie di politici rischia di inasprirsi maggiormente. È bene ricordare che anche quando alla presidenza del Consiglio sedeva Matteo Renzi, si è rafforzata una visione sempre più centralistica del governo del territorio perché si riteneva che una scelta più federalista volta alla valorizzazione dei territori fosse più complicata, provocasse un’amministrazione più dispersiva. Io non credo sia così.
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Il governo dell’emergenza pandemica non poteva che essere centralizzata. Allo stesso tempo ha messo in risalto la necessità di avvicinare le istituzioni ai bisogni dei cittadini, a partire dal diritto alla salute.

Quella drammatica emergenza che ha colto tutti di sorpresa e che inizialmente ci ha visto tutti impotenti e ignari sulla tipologia di quel virus che mieteva vittime, ha però messo in evidenza la necessità di ripensare per esempio alla riorganizzazione del sistema sanitario. In questo senso è finalmente passata l’idea che la prossimità sia un valore. Se c’è una cosa che abbiamo tutti quanti imparato a nostre spese è che avevamo una sanità molto sbilanciata sulla dimensione ospedaliera, almeno qui in Lombardia, poco vicina invece ai luoghi di vita dei cittadini. Penso anche che quella fase fosse correttamente gestita in modo molto apicale attraverso i continui decreti del Presidente del Consiglio, attraverso la proroga dello stato di emergenza che ha permesso ai commissari straordinari di prendere decisioni importanti. Quando ci si trova in una situazione emergenziale come nel caso della pandemia che ha coinvolto tutto il mondo è giusta la scelta di accorciare la catena di comando per poter prendere delle decisioni più rapide. Una situazione straordinaria che non può essere vissuta come opposta alla richiesta di distribuzione capillare dei poteri da parte di coloro che vivono più a contatto con i cittadini e che amministrano gli enti locali. Gli stessi sindaci hanno favorito il governo centralizzato dell’emergenza. Nella primavera del 2020 abbiamo spontaneamente rinunciato al potere di ordinanza, quindi all’articolo 52, perché percepivamo il rischio di una Babele, qualora un qualunque sindaco avesse potuto diramare ordinanze e disposizioni più diverse sui comportamenti da autorizzare o da vietare nel periodo di Covid e lockdown. Questo per dire che, appunto, anche noi eravamo d’accordo sul fatto che ci fosse una maggiore concentrazione dei poteri verticali evitando di aggiungere ulteriori motivi di scontro che già caratterizzavano i difficili rapporti tra alcune Regioni e il Governo.
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Le crisi a cui abbiamo fatto riferimento hanno accentuato le diseguaglianze sociali ed economiche. Bergamo è considerata una città ricca, dove si vive bene. Lei ha avvertito anche nella sua comunità la crescita di quel divario?

Anche nella nostra città, nei nostri territori si registrano significative diseguaglianze. Non posso dire che qui non esistono i poveri o non ci sia la distanza tra chi sta molto bene e chi invece fa molta fatica. Ma è anche vero che la nostra comunità può contare su un welfare particolarmente efficiente una rete di protezione sociale molto efficace a differenza di altre parti del Paese.

I nostri servizi sociali funzionano molto bene e in più abbiamo un terzo settore molto forte ben radicato nella nostra comunità. Qui la componente solidaristica è unita ad un buon funzionamento del welfare pubblico. Se parliamo poi di diseguaglianze abbiamo il dovere di considerare quelle generazionali e lavorative. Quest’ultime vedono molti lavoratori che possono contare su sistemi di protezione previsti dai contratti di lavoro e per contro lavoratori il cui futuro è affidato a forme di contrattazione episodica e precaria. Mi colpiscono in particolare le diseguaglianze generazionali segnate dalle differenze di opportunità offerte che derivano dalla diversa condizione di partenza sociale. E questa criticità è riscontrabile in tutto il nostro Paese. C’è chi nasce in una condizione più fortunata e chi nasce in una più sfavorevole. Da qui derivano a cascata una serie di altre conseguenze, nel senso che chi nasce in una famiglia benestante più facilmente usufruire di un percorso formativo migliore. Perché io ai miei figli posso consentire di frequentare buone scuole, posso garantirgli periodi di studio all’estero, per esempio. E molte altre famiglie, questo non se lo possono permettere. Ma non si tratta solo di questo. Sono interessanti anche i dati aggregati secondo i quali alle differenze di reddito corrispondono differenze relative alla salute. Per esempio, le persone povere si ammalano di più, e hanno meno opportunità di curarsi nel modo migliore rispetto alle persone che vivono in condizioni economiche agiate. Tutto ciò richiama le diseguaglianze di reddito e apre al grande tema dei salari e di conseguenza al sistema produttivo italiano in grado di garantire lo sviluppo del Paese. Negli ultimi due decenni i redditi francesi e tedeschi sono cresciuti nettamente, i nostri si sono persino ridotti. Per far fronte a questa situazione è necessario ovviamente l’intervento dello Stato che dovrebbe cercare di compensare e ridurre le distanze. Ma il nostro sistema nazionale di welfare è totalmente sbilanciato sullo stato pensionistico e invece anchilosato per quello che riguarda l’aiuto ai giovani e alle famiglie.

Diciamo che da questo punto di vista dobbiamo riconoscere che il reddito di cittadinanza, che ha mille difetti e che lasci e a fuori un sacco di persone che avrebbero titolo per percepirlo e al contrario premia persone che magari ne approfittano, è una conquista una misura universale contro la povertà che prima non avevamo. Possiamo, anzi dobbiamo, criticarla e correggerla ma non tornare indietro. Ciò che maggiormente mi colpisce è l’origine ereditaria di come, di generazione in generazione, le fortune e le sfortune si tramandano nelle maggiori o minori opportunità. Questo è il vero tema da affrontare, tutti dovrebbero avere le stesse opportunità e il successo o l’insuccesso di ciascuno dovrebbe essere solo determinato da criteri meritocratici.
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La pandemia sembra aver allentato la presa tanto che si parla di fase post Covid. Ma probabilmente dal punto di vista sociale, sul piano anche psicologico nei rapporti tra le persone qualche “cicatrice” è rimasta. Insomma come hanno reagito i suoi cittadini?

Dividerei un po’ le fasi. Nel senso che la prima fase, che è quella più drammatica perché associata a morte per tante persone, a lutto, sofferenze, paradossalmente è quella che ha prodotto maggiore coesione e una risposta più positiva. Cioè la città ha reagito a quella particolare e durissima circostanza, tirando fuori cose migliori di cui era capaci e un senso di unità.

Nella fase successiva, cioè quella invece in cui il virus ha fatto un passo indietro, non in assoluto ma in relazione alla fase precedente, sono emersi i danni prodotti sulla situazione economica e sociale. Lì si sono parse evidenti le fratture sociali rispetto al clima coeso manifestatosi in precedenza.

Perché c’è chi è protetto e chi non lo è, c’è chi poteva conservare il proprio posto di lavoro o godere dello smart working e chi non poteva alzare la saracinesca del bar o del proprio esercizio commerciale rischiando la povertà. Fratture ma anche tensioni sociali acuite dal corso della pandemia con i suoi alti e bassi, sembrava finita ma poi è tornata. Io vedo che c’è stanchezza ed è l’elemento psicologico più evidente, secondo me frustrato in questi due mesi anche dalla vicenda bellica ucraina. Quando ci sembrava fosse attenuata l’emergenza è arrivata la guerra nel cuore dell’Europa con le conseguenze che conosciamo: inflazione, riduzione del potere d’acquisto delle famiglie, disoccupazione, rincaro bollette e così via. Per far fronte a questa stanchezza abbiamo bisogno di un tempo di serenità, di un orizzonte in cui i marosi si plachino e qui si possa lavorare tranquilli, ricostruire.

Io nella mia città faccio per tutti il motivatore, il training autogeno dei miei concittadini tutti i giorni, cercando di continuare a tenere aperta una prospettiva di futuro luminoso. Perché è quello che desidero per la mia comunità. Provo a compensare questa stanchezza e questa sfiducia con degli elementi positivi che, credo in qualche misura, producano anche dei risultati. La città è comunque molto operosa e piena di cantieri, c’è una voglia di ripartire ma abbiamo bisogno tutti di tranquillità.
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I giovani studenti e non, secondo alcuni studiosi hanno maggiormente sofferto la mancanza di socialità, l’isolamento anche nello studio, l’impossibilità di svolgere attività anche solo sportive. Questa condizione starebbe alla base di alcuni fenomeni che si registrano in diverse parti d’Italia come quello che sbrigativamente catalogato delle “baby gang”. Anche lei ha registrato questi forme emergenti di violenza spesso di gruppo?

L’emergenza ha sicuramente penalizzato tutta la popolazione giovanile. Gli studenti universitari che comunque hanno goduto della possibilità di seguire da casa le lezioni, hanno però rinunciato alla vita dell’ateneo e poi, come mi ha confermato il rettore dell’università di Bergamo, i limiti della didattica a distanza sono evidenti, perché non è vero che l’esperienza formativa è del tutto fungibile attraverso media digitali. Ma io credo che i maggiori danni li abbiano subiti gli adolescenti, i più giovani tra i 13 e i 18 anni. Disagi sociali che a Bergamo per fortuna non hanno preso la forma delle baby gang, ma che sono evidenti in alcune forme di ritrovo, raduno, comportamenti aggressivi, maleducazione. Insomma, non proprio l’ideale. E noi stiamo cercando di agire su più fronti, lavorando con le famiglie e con le scuole tentando di riassorbire quella quota di abbandono scolastico o di frequentazione così zoppicante che si è prodotta durante il Covid. Inoltre abbiamo avviato progetti di contatto con i più giovani istituendo figure nuove come gli educatori di strada, persone che hanno l’obiettivo di stabilire positive relazioni con quelle fasce di popolazione. Credo che anche l’idea di costruire tante occasioni di incontro nel rispetto dei loro interessi, a partire dalla musica, sia un forte antidoto al loro isolamento. La musica è una opportunità aggregativa molto rilevante, perché credo che sia un linguaggio culturale attraverso il quale è possibile ancora entrare in contatto con gli adolescenti. La musica, lo sport questi sono le occasioni per ricucire quel distanziamento sociale al quale siamo stati costretti.
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L’ultima domanda è sul Pnrr. Come vi state muovendo?

Alcuni progetti già presentati al governo e da tempo erano approvati e finanziati sono stati allocati nell’ambito degli investimenti previsti dal Pnrr. A questi si sono aggiunti proprio nelle ultime settimane due nuovi progetti accolti dal Ministero per un totale di 130milioni di euro. Inoltre abbiamo risposto e vinto due bandi ciascuno da 20 milioni. Quindi siamo già a 170milioni ma abbiamo risposto ad altri bandi ministeriali per i quali siamo in attesa dell’approvazione. Ottimi risultati raggiunti grazie all’attività dell’Ufficio di Progettazione Europea che da qualche anno abbiamo istituito nella nostra organizzazione amministrativa. Un lavoro prezioso che dal 2014 è cresciuto moltissimo grazie alla sua struttura molto ben profilata per varie competenze che può inoltre contare sulla collaborazione di funzionari di riferimento in ogni direzione interna a cominciare da quella urbanistica, ambiente e mobilità. Questa importante e qualificata attività favorisce le probabilità di essere premiati. Abbiamo deciso di investire sulla progettazione e quindi, laddove sappiamo che il Pnrr individua dei verticali su cui sono collocate delle risorse che poi si tradurranno in tante gare ministeriali, in quei casi abbiamo chiesto ai settori interessati di anticipare la progettazione di fattibilità. Queste attività prevedono anche coperture economiche supplementari da parte nostra, uno sforzo rilevante sul capitolo investimenti forzando la prossima capacità di indebitamento del Comune con i mutui, mettendo potenzialmente in previsione anche una parziale cessione di azioni che sono l’unico bene che ci rimane e servono per finanziare gli investimenti. Tutto questo per poter portare, ripeto, la progettazione ad un livello più competitivo. Uno dei due stanziamenti più consistenti prima della stesura e approvazione parlamentare e comunitaria del Pnrr, è quello per la componente ferroviaria del nuovo polo intermodale di Bergamo all’interno di un progetto molto più ampio per il quale sono previsti anche investimenti privati.

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