La responsabilità sanitaria in tempo di pandemia

Ipotesi di responsabilità civile e penale a carico di personale e strutture sanitarie nell’affrontare l’emergenza Covid 19
28 Febbraio 2022 |
A cura della redazione

Con l’avanzare della stagione invernale e l’affermarsi di sempre nuove varianti la pandemia Sars CoV-2 ha ripreso vigore anche in Italia, solo parzialmente frenata dal ricorso alla terza dose vaccinale e dal massiccio utilizzo di green pass e super green pass.

Dopo i primi mesi di diffusione dell’epidemia in cui grande è stato il riconoscimento verso personale e strutture ospedaliere per aver fronteggiato l’onda di piena con pochi presidi e conoscenze scientifiche limitate, oggi, a due anni dall’inizio della pandemia, comincia a porsi il tema delle eventuali responsabilità di strutture ospedaliere e personale sanitario nei casi di decessi o danni alla salute causati da errori o ritardi diagnostici, trattamenti sanitari non adeguati o deficienze strutturali, tecnologiche o organizzative. Parallelamente si pone il tema dei danni indiretti relativi al differimento di interventi chirurgici, di cure o di attività diagnostiche, così come non possono escludersi contestazioni da parte dello stesso personale sanitario nel caso di non tempestiva messa a disposizione di adeguate misure di protezione.
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La responsabilità civile delle strutture sanitarie durante l’emergenza Covid 19

La responsabilità civile in ambito sanitario è disciplinata della Legge n. 24 del 28 febbraio 2017, meglio nota come Legge Gelli-Bianco. La legge, finalizzata ad assicurare, da un lato, una più efficace tutela del paziente e, dall’altro, una maggiore serenità del personale sanitario, non più condizionato dai timori di strumentali azioni giudiziarie, prevede l’obbligo per tutti gli esercenti le professioni sanitarie (medici, infermieri, odontoiatri, operatori sanitari, etc) di attenersi alle linee guida validate dall’Istituto Superiore di Sanità e dal Ministero della Salute. In forza di ciò la Legge chiama a rispondere del danno alla salute, determinatosi in ambito sanitario, innanzitutto le strutture sanitarie e sociosanitarie, direttamente responsabili sia del danno da malpractice cagionato dal personale sanitario operante al loro interno, che del danno conseguente all’inadempimento di obblighi organizzativi e di aggiornamento tecnologico derivanti dal contratto di spedalità concluso con i pazienti.

Tali obblighi impegnano innanzitutto le strutture sanitarie ad assicurare, con le risorse disponibili, la fornitura di cure in un contesto adeguato alle circostanze quanto a tipologia e dimensioni della struttura, bacino d’utenza, caratteristiche dei servizi e utilizzo di apparecchiature in linea con l’evoluzione scientifica e tecnologica. Rispetto a tali obbligazioni la responsabilità è dai più assimilata alla responsabilità oggettiva, con attribuzione alle strutture ospedaliere o assistenziali del rischio derivante dalle eventuali anomalie del proprio apparato organizzativo. Da ciò, però, non discende, nell’attuale emergenza pandemica, un’automatica responsabilità delle strutture sanitarie nei casi in cui queste si siano rivelate, soprattutto nella prima fase, non sufficientemente attrezzate per fronteggiare un evento straordinario come la pandemia. Il livello organizzativo e la dotazione di apparati tecnologici, idonei a soddisfare le esigenze di diagnosi, cura ed assistenza deve, infatti, rapportarsi alle risorse disponibili e alla necessità che queste siano impegnate con razionalità, appropriatezza ed efficienza, di modo che certo non è possibile imputare alle strutture ospedaliere, tanto più in assenza di un piano pandemico aggiornato, di non essere state attrezzate con reparti, apparati e personale che in tempi ordinari sarebbero stati sovrabbondanti, oltre che economicamente insostenibili.

Se, quindi, deve escludersi la possibilità di contestare alle strutture sanitarie l’incapacità di farsi carico di tutti i pazienti affetti da Covid 19 o di trattarli tutti con adeguati strumenti di diagnosi e cura, diverso è il caso della mancata adozione, a livello organizzativo, di ogni accorgimento atto ad evitare la diffusione del virus. In ciò il riferimento è al mancato adeguato isolamento dei malati, alla non costante sanificazione ambientale, all’omessa disinfezione degli strumenti, alla ritardata evacuazione delle strutture nei casi di massiccia diffusione dell’epidemia al loro interno, al non corretto impiego – ove disponibili – dei dispositivi di protezione individuale o al mancato funzionamento, in più occasioni venuto meno, degli impianti di distribuzione di ossigeno e delle apparecchiature di ventilazione. In tali casi le strutture sanitarie o sociosanitarie sono sempre chiamate a rispondere, salva la prova che l’inadempimento sia stato determinato da un impedimento imprevedibile e inevitabile, nel caso di specie valutato tenendo conto dell’eccezionalità e repentinità della situazione emergenziale. Nei casi in cui sia contestato il contagio all’interno della struttura sanitaria resta la necessità, per i pazienti, di provare che l’infezione sia stata effettivamente contratta in ambito sanitario. Tale prova è certamente più agevole nel caso di positività manifestatasi durante un ricovero, vista la previsione dell’esecuzione di tamponi all’ingresso, mentre è meno agevole nel caso della sola sottoposizione ad esami diagnostici, vista l’ampia circolazione virale anche in ambito extraospedaliero. Al di là, poi, dell’imputabilità del contagio alla struttura, grava, inoltre, sul danneggiato l’onere di provare che il danno sia effettivamente stato causato dall’infezione, cosa, questa, non semplice, posto che, come noto, la malattia colpisce più gravemente pazienti affetti da pregresse e spesso gravi patologie, fermo restando il fatto che, nel caso in cui un quadro clinico stabile, per quanto complesso e problematico, si sia aggravato a seguito dell’infezione, questa sarà ragionevolmente intesa come causa dell’invalidità o del decesso.
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Il danno da malpractice sanitaria

Accanto al danno da deficit organizzativo o da malfunzionalmento di impianti e attrezzature, di cui è chiamata a rispondere la sola struttura sanitaria con i titolari di responsabilità organizzative e di controllo, vi è, poi, il danno da malpractice, inteso come il danno causato al paziente in conseguenza di errori, omissioni o incuria, tradottisi nel mancato rispetto o nella non corretta applicazione delle linee guida o delle buone pratiche clinico-assistenziali. Di tale danno, ai sensi dell’art. 5 della Legge Gelli-Bianco, risponde innanzitutto, a titolo contrattuale, la struttura sanitaria che si sia avvalsa del personale sanitario responsabile, anche nel caso in cui questo non sia dipendente. Ciò in quanto la struttura, per il solo fatto di entrare in contatto con il paziente, che ad essa si affida per la diagnosi e la cura, instaura con esso uno specifico rapporto contrattuale. In solido con la struttura sanitaria risponde il professionista, responsabile in questo caso a titolo extracontrattuale, con tutte le conseguenze che ciò comporta in tema di differenti termini di prescrizione e più gravosi oneri probatori a carico del paziente. Nel caso in cui si configuri una responsabilità contrattuale, infatti, il paziente danneggiato, nel termine di prescrizione di dieci anni, è chiamato a dimostrare unicamente il danno subito e il proprio diritto alla prestazione sanitaria non correttamente adempiuta, essendo, invece, la struttura tenuta a dimostrare di aver correttamente adempiuto o di essere stata nell’impossibilità di adempiere per una causa ad essa non imputabile. Nel caso, invece, di responsabilità extracontrattuale il danneggiato, nel termine di prescrizione quinquennale, è chiamato non solo a dimostrare il danno subito ma la riconducibilità dello stesso a una data condotta del professionista sanitario. Il professionista risponde, invece, a titolo contrattuale nel solo caso in cui abbia assunto l’obbligazione direttamente con il paziente, cosa che interviene, ad esempio, nel caso di visite libero professionali presso studi privati o di consulti privati via web, sempre più frequenti in tempo di pandemia. Nel caso di condanna la struttura sanitaria o sociosanitaria e la compagnia assicurativa che abbia corrisposto l’indennità possono, poi, nei soli casi di dolo o colpa grave, agire in rivalsa nei confronti del personale sanitario responsabile. In tal caso l’assicurazione si surroga nel diritto di rivalsa della struttura sanitaria. La misura della rivalsa o della surrogazione non può superare il triplo del maggior reddito professionale annuo conseguito dal professionista sanitario nell’anno di inizio della prestazione, nell’anno antecedente o nell’anno successivo.

La responsabilità del professionista, anche chiamato a rispondere di un danno da ritardata o errata diagnosi covid o da errato trattamento dell’infezione, è disciplinata dagli artt. 1176, comma 2 cod. civ. e 2236 cod. civ., stando ai quali “nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata”; “se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o colpa grave”. Da tali disposizioni, relative in via diretta alla responsabilità contrattuale, ma considerate estensibili anche ai casi di responsabilità extracontrattuale in cui il professionista, pur se scelto dal paziente, opera all’interno di una struttura sanitaria, discende un obbligo di diligenza che va parametrato alla natura professionale dell’attività svolta, ma che nel caso di una prestazione che implichi la soluzione di problemi tecnici di particolare complessità limita la responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave. Ciò con l’obiettivo di conciliare l’esigenza di “non mortificare l’iniziativa del professionista con il timore di ingiustificate rappresaglie da parte del cliente in caso di insuccesso e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista stesso” (Relazione al codice civile n. 917). Le norme in questione sono da sempre oggetto di un’interpretazione particolarmente restrittiva da parte della giurisprudenza che, da un lato, limita la portata applicativa del limite del dolo o colpa grave previsto dall’art. 2236 cod. civ. alle ipotesi di imperizia, lasciando fuori i profili di diligenza e prudenza, dall’altro, ritiene che il caso affidato al medico possa considerarsi di particolare difficoltà solo quando richieda un impegno intellettuale e una preparazione professionale superiori a quelli del professionista medio. Ciò confina il limite del dolo e della colpa grave ai soli casi eccezionali e straordinari per non essere stati ancora adeguatamente studiati nella scienza e sperimentati nella pratica, ovvero per essere oggetto di dibattiti scientifici con sperimentazione di sistemi diagnostici, terapeutici e di tecnica chirurgica diversi o incompatibili.

Tutto ciò si attaglia perfettamente all’attuale emergenza in cui la novità del virus e della conseguente patologia, la limitatezza delle conoscenze scientifiche, l’assenza di farmaci effettivamente efficaci o di linee guida terapeutiche consolidate, così come l’assenza di buone pratiche clinico-assistenziali, il numero abnorme di pazienti da assistere contemporaneamente, la limitata disponibilità di risorse (posti letto in terapia intensiva e non, apparecchi di ventilazione forzata, dispositivi di protezione individuale, etc), l’insufficiente numero di infettivologi e rianimatori-intensivisti, con necessità di impiegare anche personale di altre specializzazioni, rende particolarmente improbabile che a un professionista sanitario sia rimproverato di non essersi attenuto, come dispone l’art. 5 della Legge Gelli-Bianco, alle “raccomandazioni previste dalle linee guida” accreditate dalle istituzioni e, in loro mancanza, alle “buone pratiche clinico-assistenziali”. Oggi, in presenza di linee guida, per quanto incomplete e non risolutive, la responsabilità, ai sensi dell’art. 2236 cod. civ., può limitarsi al dolo e, nel caso di imperizia, alla colpa grave, ferma restando la piena responsabilità nel caso di negligenza o imprudenza. Se, però, ciò vale nei casi in cui al professionista sanitario sia contestato un errore nell’esecuzione di trattamenti terapeutici su malati Covid 19, certamente più difficile è che tali disposizioni operino riguardo all’errore e al ritardo diagnostico, posto che, sia pure con tutte le peculiarità da valutare caso per caso, a partire dalla mutevolezza dei tempi di incubazione del virus, l’infezione Sars–CoV-2 può essere riconosciuta da sintomi ormai sufficientemente noti ed è accertabile con tecniche affidabili. Pari considerazioni possono valere per il caso di mancata adozione di accorgimenti atti ad evitare la diffusione del virus all’interno delle strutture sanitarie, posto che l’adozione di misure di prevenzione è connotata da un livello di complessità sensibilmente inferiore a quello relativo alla somministrazione di terapie ai pazienti infetti. Riprova di ciò si trova nel fatto che, in tema di infezioni nosocomiali la giurisprudenza abbia più volte negato l’applicabilità dell’art. 2236 cod. civ., sottolineando il carattere del tutto ordinario di operazioni quali la sterilizzazione della sala operatoria e degli strumenti clinici o la disinfezione degli ambienti ospedalieri, etc. Anche rispetto a tali ipotesi è, però, possibile che la situazione di emergenza determini quella difficoltà della prestazione che costituisce presupposto della limitazione di responsabilità prevista dall’art. 2236 cod. civ., dovendosi operare anche la valutazione delle criticità del contesto organizzativo e strutturale in cui la prestazione è stata resa. Su tutto opera, poi, il principio di inesigibilità della prestazione in forza del quale si esclude qualunque profilo di responsabilità della struttura e del singolo operatore nel caso in cui non sia stato possibile tenere una condotta difforme da quella effettivamente tenuta. Ma se è indubbio che i primi mesi della pandemia sono stati caratterizzati dalla novità e rapidità di diffusione di un contagio nuovo, rispetto al quale non vi erano conoscenze medico scientifiche né, tanto meno, protocolli e/o linee guida cui parametrare le condotte in contestazione, altrettanto non può dirsi con riferimento alle fasi successive che vedevano le strutture e i sanitari operare in presenza di protocolli e/o linee guida a cui rapportarsi per una corretta gestione del caso clinico.
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Limiti all’utilizzo di farmaci off label
o di terapie sperimentali

Spesso la pandemia ha imposto l’utilizzo di farmaci off label, cioè impiegati in modo differente da quanto previsto dai provvedimenti di autorizzazione all’immissione in commercio, o il ricorso a terapie sperimentali che, in quanto tali, possono anche essere causa di danni alla salute. In proposito l’art. 3 del Decreto Legge n. 73 del 17 febbraio 1998, così come convertito dalla Legge n. 94 dell’8 aprile 1998, dopo aver previsto l’obbligo per il medico di attenersi “alle indicazioni terapeutiche, alle vie e alle modalità di somministrazione previste dall’autorizzazione all’immissione in commercio rilasciata dal Ministero della sanità”, ha introdotto la possibilità per lo stesso di impiegare un medicinale prodotto industrialmente con una posologia, una tipologia di destinatari o indicazione diverse da quelle autorizzate. Ciò a condizione che (i) lo stesso medico ritenga, “in base a dati documentabili, che il paziente non possa essere utilmente trattato con medicinali per i quali sia già approvata quella indicazione terapeutica o quella via o modalità di somministrazione; (ii) “tale impiego sia noto e conforme a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale; (iii) il paziente sia stato preventivamente informato e abbia prestato il proprio consenso. In tal caso, dunque, ove dovesse essere contestato un danno alla salute, il professionista e la struttura, al fine di andare esenti da responsabilità, saranno chiamato a dimostrare la peculiarità del caso concreto che giustificava la somministrazione del farmaco off label o l’utilizzo della terapia sperimentale a fronte, da un lato, dell’impossibilità di trattare altrimenti il caso di infezione, dall’altro, dell’accreditamento di tale terapia da parte di studi scientifici di valore internazionale.
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Il consenso informato in epoca Covid

Nel rispetto di quanto disposto dagli artt. 32, comma 2 della Costituzione (“Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”) e 3, comma 2 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (“Nell’ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati: il consenso libero e informato della persona interessata secondo le modalità definite dalla legge (…)”, nessun trattamento sanitario, al di fuori dei casi eccezionali previsti dalla legge, può essere erogato senza il consenso informato del paziente, oggi disciplinato dalla Legge n. 219 del 22 dicembre 2017, dopo essere stato a lungo oggetto di elaborazioni giurisprudenziali. Che fare, però, nel caso in cui un paziente affetto da covid 19, giunto presso la struttura sanitaria in condizione di incoscienza, necessiti di immediati trattamenti e che fare nel caso in cui l’accumularsi delle emergenze renda impossibile al limitato personale sanitario illustrare adeguatamente a tutti i pazienti le terapie a cui dovranno essere sottoposti, le possibili vie alternative e i rischi di eventi avversi che possano derivarne? In tal caso il diritto all’autodeterminazione e alla scelta consapevole trova un limite nella forza maggiore, di modo che il sanitario andrà esente da responsabilità ove il mancato rilascio del consenso informato sia dovuto all’assoluta urgenza del trattamento o, comunque, all’oggettiva impossibilità di informare, tante volte verificatasi proprio nella gestione dell’attuale pandemia.
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La specificità degli addebiti in tema di mancato rispetto dei protocolli e di insufficiente sorveglianza infettivologica

Quale che sia il titolo di responsabilità imputato alla struttura o al personale sanitario il paziente/danneggiato che agisce per il ristoro dei danni subiti è tenuto a individuare in modo specifico, dettagliato e non contraddittorio le condotte che reputa errate al fine di non incorrere in domande inammissibili in quanto generiche. Il Tribunale di Torino, con ordinanza dello scorso 6 maggio, ha in proposito dichiarato inammissibile un ricorso instaurato dagli eredi di un paziente 87enne deceduto per covid. Ciò proprio in ragione della mancata indicazione di “precisi inadempimenti” e “specifici addebiti” nei confronti della struttura sanitaria ritenuta responsabile, posto che l’assoluta novità e complessità della tematica impongono un più severo onere di allegazione, un maggiore approfondimento degli addebiti rivolti e una verifica del rispetto dei protocolli in uso. Ed, infatti, “la consulenza tecnica preventiva [richiesta dai parenti del defunto] potrebbe risolvere o, almeno, semplificare la controversia soltanto laddove a precisi inadempimenti di natura medico-sanitaria siano correlati altrettanto specifici addebiti (in fatto e diritto) relativi alla mancata/insufficiente sorveglianza infettivologica e (…) concreta applicazione dei protocolli di cui la struttura sia formalmente dotata” (Trib. Torino, Ord. del 6 maggio 2021).
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La responsabilità penale del personale esercente le professioni sanitarie

Nel caso di infezioni nosocomiali da Sars CoV-2 o di danni derivanti da impossibilità o errori nelle cure, accanto alla responsabilità civile viene in rilevo la possibile responsabilità penale per fattispecie quali omicidio colposo (art. 589 cod. pen.), lesioni personali colpose (art. 590 cod. pen.), epidemia colposa (artt. 438 e 452 cod. pen.), morte o lesioni in conseguenza di altro delitto (artt. 586 cod. pen.), omissione o rifiuto di atti d’ufficio (art. 328 cod. pen.).

L’art. 590 sexies cod. pen. limita la responsabilità penale del personale sanitario, stabilendo che “se i fatti di cui agli artt. 589 e 590 cod. pen. [(omicidio colposo e lesioni personali colpose) ndr] sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria (…), qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge, ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”.

La norma esclude, dunque, la punibilità del professionista sanitario nelle ipotesi di imperizia che residuano quando siano state rispettate linee guida “adeguate alla specificità del caso concreto” o, in mancanza di queste, le “buone pratiche clinico-assistenziali”. In merito può pensarsi a questioni tecnico-scientifiche di nuova emersione, non ancora sedimentate nelle buone prassi, a questioni particolarmente complesse e ai “problemi tecnici di speciale difficolta”, già analizzati con riferimento all’art. 2236 cod. civ., tra i quali certamente possono essere ricomprese le problematiche relative all’emergenza covid 19.

Come chiarito dalla sentenza Cass. Pen. Sezz. Un. n. 8770 del 22 febbraio 2018, meglio nota come “sentenza Mariotti”, nel caso di morte o lesioni personali derivanti dall’esercizio di attività medico-chirurgica l’esercente la professione sanitaria risponde:

1. se l’evento si è verificato per colpa (anche lieve) da negligenza o imprudenza;

2. se l’evento si è verificato per colpa (anche lieve) da imperizia, quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali;

3. e l’evento si è verificato per colpa (anche lieve) da imperizia nell’individuazione o nella scelta delle linee-guida o di buone pratiche, non adeguate alla specificità del caso concreto;

4. se l’evento si è verificato per colpa “grave” da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni di linee-guida o di buone pratiche adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle speciali difficoltà dell’atto medico.

Al contrario, a prescindere da qualunque graduazione della colpa, il personale sanitario non risponde del danno se la morte o la lesione si siano verificati a causa di imperizia (e non per negligenza e imprudenza), nel caso in cui siano state rispettate le raccomandazioni contenute nelle linee guida o siano state attuate le best practices e queste siano adeguate al caso di specie.

La causa di non punibilità prevista dall’art. 590 sexies cod. pen. si limita ai casi di omicidio colposo e lesioni personali colpose senza estendersi all’epidemia colposa, alla morte o lesioni in conseguenza di altro delitto o al rifiuto di atti di ufficio per ragioni di sanità, fattispecie, questa, configurabile nell’ipotesi di accertamenti diagnostici o terapie negate durante il periodo di emergenza, rispetto alle quali, però, ove ricorrente, opera già la causa di non punibilità costituita dalla forza maggiore.
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Lo scudo penale previsto per il personale sanitario dal Decreto Legge n. 44 del 1° aprile 2021

La limitata area di non punibilità colposa prevista dall’art. 590 sexies cod. pen. è stata ritenuta insufficiente rispetto alle contingenze emergenziali in cui si è trovato ad operare il personale sanitario nel quotidiano contrasto al virus Sars CoV-2, specie nella prima fase di emergenza in cui si è proceduto in via sperimentale, in carenza di personale specializzato e con ritmi convulsi. Tutto ciò ha posto l’attenzione, per un verso, sulla già analizzata assenza di linee guida accreditate o pratiche consolidate cui collegare il giudizio di responsabilità; per altro verso, sull’opportunità di estendere l’esenzione di responsabilità ai casi di negligenza e imprudenza non gravi.

Nel tentativo di tutelare la posizione del personale sanitario il Decreto Legge n. 44 del 1° aprile 2021, così come convertito dalla Legge n. 76 del 28 maggio 2021, ha introdotto il cosiddetto scudo penale per le ipotesi di “Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario durante lo stato di emergenza epidemiologica da COVID-19”. L’art. 3 bis, in particolare, ha stabilito che “Durante lo stato di emergenza epidemiologica da COVID-19, dichiarato con delibera del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020, e successive proroghe, i fatti di cui agli articoli 589 e 590 del codice penale [omicidio colposo e lesioni personali colpose ndr], commessi nell’esercizio di una professione sanitaria e che trovano causa nella situazione di emergenza, sono punibili solo nei casi di colpa grave”. Il secondo comma dello stesso articolo ha, poi, previsto che “ai fini della valutazione del grado di colpa, il giudice tiene conto, fra i fattori che ne possono escludere la gravità, della limitatezza delle conoscenze scientifiche al momento del fatto sulle patologie da SARS-CoV-2 e sulle terapie appropriate, nonché della scarsità delle risorse umane e materiali concretamente disponibili in relazione al numero dei casi da trattare, oltre che del minor grado di esperienza e conoscenze tecniche possedute dal personale non specializzato impiegato per far fronte all’emergenza”.

La norma prevede, dunque, una causa di non punibilità per i reati di omicidio colposo (art. 589 cod. pen.) e lesioni personali colpose (art. 590 cod. pen.), commessi con colpa lieve nell’esercizio di una professione sanitaria, reati che trovino causa nella situazione di emergenza. Se, quindi, l’art. 590 sexies cod. pen. già prevedeva l’esclusione della punibilità del personale sanitario per i casi di omicidio colposo e lesioni personali colpose quando l’evento morte o la lesione si fossero prodotti a causa di imperizia, pur rispettando le raccomandazioni contenute nelle linee guida o le best practies adeguate al caso di specie, con l’art. 3bis del Decreto Legge n. 44/21 si è estesa la non punibilità a tutti i casi di omicidio colposo o lesioni personali colpose commessi con colpa lieve dal personale sanitario durante lo stato di emergenza. Ciò non solo nel caso di imperizia ma anche di imprudenza o negligenza, dovendosi tenere conto, ai fini della valutazione del grado di colpa, della limitatezza delle conoscenze scientifiche sulle patologie e sulle terapie, della scarsità delle risorse umane e materiali rispetto al numero di casi da trattare e della limitata conoscenza ed esperienza del personale non specializzato, utilizzato per far fronte all’emergenza. Lo stesso Decreto Legge n. 44/21 all’art. 3 ha, poi, previsto un ulteriore scudo penale quanto alla somministrazione dei vaccini anti SARS CoV-2, stabilendo la non punibilità “per i fatti di cui agli articoli 589 e 590 codice penale [omicidio colposo e lesioni personali colpose ndr] verificatisi a causa della somministrazione di un vaccino per la prevenzione delle infezioni Sars-CoV-2, effettuata nel corso della campagna vaccinale straordinaria (…) quando l’uso del vaccino è conforme alle indicazioni contenute nel provvedimento di autorizzazione all’immissione in commercio emesso dalla competenti autorità e alle circolari pubblicate nel sito internet istituzionale del Ministero della salute relative alla attività di vaccinazione”. Temendosi possibili reazioni avverse ai vaccini si è, così, esclusa la punibilità per i reati di omicidio colposo o lesioni personali colpose dei somministratori che abbiano inoculato il vaccino attenendosi alle prescrizioni contenute nel provvedimento di autorizzazione all’immissione in commercio e alle circolari in tema di vaccinazione. Tale scudo non esclude, dunque, la punibilità nelle ipotesi di imprudenza, imperizia o negligenza differenti dalla somministrazione per fatti, ad esempio, relativi al corretto stoccaggio e/o alla conservazione dei vaccini, nel rispetto delle prescrizioni in tema di temperatura, o per fatti relativi a un’errata inoculazione (si pensi alla contemporanea inoculazione di più dosi) o a una carente anamnesi precedente alla vaccinazione.

Trattandosi di norme penali di favore le stessa trovano applicazione ai fatti commessi anche prima dell’entrata in vigore del Decreto Legge n. 44/21 (1° giugno 2021), purchè successivi alla deliberazione dello stato di emergenza, dichiarato il 31 gennaio 2020.
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Gli autori dell’articolo
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Anna Bogliolo

La dott.ssa. Anna Bogliolo, anna.bogliolo@ studiolegaleastolfi.it, collabora con lo Studio Astolfi dal 2000 ed è membro del comitato di redazione della rivista giuridica “Rassegna di diritto farmaceutico e della salute”, nonché del board editoriale di “Riabilitazione Oggi”. Autrice di numerose pubblicazioni, si occupa, in particolare, di responsabilità da malpractice di strutture e operatori sanitari.
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Avv. Patrizio Melpignano

L’avv. Patrizio Melpignano, p.melpignano@studiolegaleastolfi.it svolge la sua attività professionale prevalentemente nel campo del diritto civile, commerciale e societario, con particolare riguardo ai settori bancario e dell’intermediazione finanziaria, della responsabilità medica, delle relazioni industriali e del real estate. Membro dei consigli di amministrazione di società non quotate, partecipa come relatore a convegni e seminari ed è parte del comitato di redazione della “Rassegna di Diritto Farmaceutico e della salute”, oltre che autore di numerose pubblicazioni.


A cura della redazione
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