Carlo Cottarelli

Direttore Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica di Milano
7 Febbraio 2022 |
Valerio Imperatori

La nostra conversazione, rigorosamente da remoto, risale allo scorso mese di dicembre. Il professor Carlo Cottarelli è tornato alla ribalta negli ultimi mesi non solo per analisi e studi economici ma anche per la sua passione sportiva calcistica lanciando il progetto di azionariato popolare per l’Inter, assumendo il ruolo di presidente di Interspac.

In fondo a voler essere precisi sempre di una operazione economico-finanziaria si tratta: attraverso l’azionariato popolare una parte della proprietà del club Inter passerebbe ai tifosi entrando in qualità di azionisti in società. D’altronde mutuando proprio dall’universo calcistico parlato, Carlo Cottarelli è un top player e la sua carriera professionale non lascia dubbi al proposito: laurea in economia, master alla London School of Economics, e dalla fine degli anni ’80 inizia la sua ascesa al Fondo Monetario Internazionale fino alla direzione del Dipartimento Affari Fiscali dal 2008 al 2013.

In seguito richiamato in Italia dall’allora Presidente del Consiglio Enrico Letta in qualità di commissario alla spending review che gli valse tra gli altri l’appellativo di mister forbici.
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Professor Cottarelli, lei in pochi mesi fece un lavoro straordinario contando su uno staff ristretto e venti specifici gruppi di lavoro composti da tecnici, professori universitari e figure apicali dei Ministeri. Un’attività che produsse un rapporto di oltre ottocento pagine. Se non ricordo male, anche la sua relazione riassuntiva rimase per mesi in un cassetto. Forse, come sostennero alcuni, troppo politica?

Non so se questa fosse la motivazione. Il lavoro certosino che realizzammo interessava diverse aree tematiche: investimenti pubblici, organizzazione della PA, costi della politica, acquisti di beni e servizi, immobili pubblici, pubblico impiego, partecipate locali, fabbisogni e costi standard, province, comuni, regioni e nove ministeri. Per me tutto era chiaro, rivedere la spesa pubblica significava non sprecare denari pubblici e utilizzare i risparmi per combattere per esempio disuguaglianze sociali oppure avviare politiche d’investimenti. Questi erano alcuni ambiti dove avrebbero dovuto essere impiegati i risparmi della spesa pubblica, ma da più parti quei potenziali tesoretti dovevano al contrario costituire copertura finanziaria di altre di altre nuove spese. L’obiettivo del nostro piano era quello di ridurre la spesa a regime di 33,6 miliardi nel 2016, un obiettivo che per diverse ragioni non è stato raggiunto. Nonostante tutto questo qualche risultato è stato ottenuto, penso per esempio alla Riforma degli acquisti di beni e servizi da parte della pubblica amministrazione (avviata dal DL 66 del 2014) che ha portato a regime all’accentramento in 35 soggetti aggregatori degli acquisti al di sopra di una certa soglia e a una maggiore trasparenza dei prezzi di acquisto della pubblica amministrazione. Citavo questo provvedimento per chiarire che qualsiasi revisione di spesa pubblica deve essere accompagnata dalle relative attività di riforma, e qui subentra la decisione politica del Governo e del Parlamento.
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A proposito di riforme, sulla base della sua esperienza quali sono state le maggiori resistenze ai cambiamenti che il suo piano indicava? Nell’opinione pubblica spesso sul banco degli imputati finisce la burocrazia e il suo potere, i burocrati, insomma la macchina operativa dello Stato. Questa è spesso una semplificazione ma è pur vero che il problema esiste…

In ultima analisi gli ostacoli maggiori al mio lavoro sono emersi dalla politica, senza la volontà dei decisori politici non si potranno mai superare le resistenze al cambiamento degli apparati burocratici.

Che esista nel nostro Paese l’enorme problema della burocrazia non c’è alcun dubbio, anzi forse questo è il problema principale. Ma, ripeto, spetta alla politica cambiare le regole, i comportamenti, superare le criticità del sistema. Senza quella volontà non è possibile determinare alcuna trasformazione. Avere una macchina dello Stato e delle sue articolazioni sul territorio che funzioni, sia efficiente e performante è la priorità per questo Paese. Non parlo solo della Pubblica Amministrazione Centrale (PAC) ma anche di quella locale (PAL). Io visito molti comuni da quelli più grandi a quelli più piccoli e spesso incontro sindaci che lamentano il fatto che la loro azione è troppo vincolata dalle regole che vengono imposte alla loro attività amministrativa, a cominciare dall’organizzazione del personale e dei processi lavorativi interni.
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Rimane sempre il fatto che i cittadini si pongono frequentemente la domanda sul perché venga meno la volontà politica necessaria di chi ci rappresenta nelle sedi istituzionali.

È bene ricordare a tutti noi che siamo in democrazia, pienamente liberi di votare i partiti e i loro programmi, le loro diverse priorità. Così nell’azione di qualsiasi governo, nelle decisioni parlamentari si riflettono gli interessi rappresentati dal proprio elettorato di riferimento. Vale per tutti gli schieramenti, per chi vuole il reddito di cittadinanza, per chi vuole quota 100, per chi vuole gli 80 euro e così via.

In questo modo, almeno fino a oggi, alcune priorità per il buon funzionamento dello Stato come la riforma della burocrazia scivolano in secondo piano. Insomma da sempre la classe politica è lo specchio del Paese, è la rappresentazione reale della nostra società e delle sue contraddizioni. La responsabilità è anche di noi cittadini elettori.
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La global tax approvata nel recente G20 è una cosa giusta bisognerà realizzarla. È la prima volta che tanti Paesi si mettono d’accordo sulle politiche di tassazione che sono l’essenza della sovranità dello Stato

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Ora però l’Italia ha una grande opportunità per avviare concretamente processi di trasformazione capaci di rendere il Paese più moderno, competitivo, performante e sostenibile: il PNRR.

Le opportunità del Pnrr si sostanziano nella possibilità di portare il Paese su una traiettoria di crescita alta per gli standard italiani, indicativamente del 2% annuo, raggiungendo e superando velocemente i livelli del 2019, prima dell’esplosione del Covid. Il rischio, semplicemente, è di non farcela, vuoi per l’imponenza del debito pubblico, vuoi per altre variabili non economiche in senso stretto. La politica è un elemento decisivo nella pianificazione. Se consideriamo la situazione italiana, oggi abbiamo un governo sostenuto a larga maggioranza, ma non sappiamo esattamente quanto potrà durare. Nel frattempo, però, c’è moltissima carne al fuoco, l’agenda politica è fitta come in poche altre occasioni e, stante il numero di variabili in gioco, non è semplice prevedere il futuro, e di conseguenza programmare. Alcuni interventi, quindi appaiono imprescindibili. I campi non sono pochi. Senza la pretesa di essere esaustivo, non si può più rinviare una seria riforma della burocrazia che velocizzi i procedimenti senza perdere efficienza. Poi ci sono la lentezza della giustizia, da sempre una spina nel fianco nel sistema Italia, l’ammodernamento del settore pubblico, le infrastrutture. Come dicevo, è un’agenda ricca e per cominciare c’è solo l’imbarazzo della scelta. Tutto questo abbinato a uno ‘scatto civico’ in avanti. Ma purtroppo noi italiani brilliamo per molte caratteristiche, tra le quali non c’è ai primi posti il senso civico. Non serve faticare troppo per trovare qualche esempio, visto che le cronache riportano quotidianamente episodi di in-civismo. Resto convinto che uno scatto etico sia fondamentale, che il tempo stringa e che sia necessario metterlo in atto. Altrimenti le conseguenze saranno quelle che già vediamo: imprenditori bravi e sani, che dovrebbero essere la spina dorsale del Paese, se ne andranno a causa della difficoltà in Italia di fare impresa e di veder riconosciuti i propri sforzi. Va da sé che ciò che dico per l’imprenditoria possa essere esteso all’intera classe dirigente.
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La Commissione Europea e il Governo italiano hanno predisposto rigidi criteri di ammissione dei progetti da realizzare grazie ai finanziamenti previsti dalle missioni del PNRR. Nelle ultime settimane da più parti è stata denunciata una sorta di penalizzazione nei confronti delle proposte avanzate dalle regione del Sud Italia, a fronte della non ammissibilità di alcuni progetti in quanto non conformi ai criteri richiesti. Lei pensa che ci sia questa forma di “discriminazione” come qualcuno ha paventato?

Io non credo a questa possibilità. Alcune regioni del Sud, in particolare la Sicilia, hanno incontrato oggettive difficoltà. I motivi sono diversi dall’assenza di competenze qualificate dovuta anche alle politiche di assunzioni clientelari del passato alla tempistica assai ristretta. Ma credo che la Sicilia costituisca un caso, così almeno dicono oggi i numeri. Infatti i progetti ammessi provenienti dai territori delle regioni meridionali sono più o meno il 70% mentre quelli avanzati dalle regioni del Nord sono l’80%. Questo mi fa dire che la ventilata penalizzazione costituisce un falso allarme. Può accadere che alcune realtà non dispongano delle competenze necessarie per confezionare i progetti, ma in questi casi devono essere garantite dalle strutture centrali preposte sia l’assistenza tecnica che l’accompagnamento alla presentazione nel rispetto dei criteri stabiliti.
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I fondi previsti dalla Next Generation Eu per il nostro Paese sono in parte a fondo perduto e in parte sono un prestito anche se a condizioni molto agevolate. Questa seconda trance di trasferimenti potrebbe aggiungersi all’attuale debito pubblico e pesare ancor di più sulle future generazioni. Come è possibile evitare questo rischio?

Il fatto che il prestito sia così agevolato ci fa risparmiare molto in termini di tassi d’interesse. Ma è sempre un debito che deve essere restituito anche se gli orizzonti temporali sono lunghi. I progetti contemplati nelle missioni previste dal PNRR devono essere realizzati, devono diventare attuativi entro il 2026, insomma bisogna velocizzare e semplificare i processi per permettere al nostro Paese di cambiare, soprattutto di crescere e per farlo bisogna investire . La crescita inevitabilmente provocherà una sensibile contrazione del rapporto tra debito pubblico e Prodotto Interno Lordo (PIL) che nel 2021 si è attestato al 154,8%. Abbiamo una grandissima e unica, nella nostra storia, opportunità per trasformare l’Italia. Se dovessimo fallire o sprecare questa occasione, le future generazione ne faranno le spese.
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Condivide l’opinione di qualche economista che le recenti fiammate inflazionistiche a livello globale siano solo degli episodi temporanei e quindi destinati a durare poco nel tempo?

Le principali banche centrali dicono che è un fenomeno temporaneo soprattutto in Europa e che quindi rientrerà senza dover intervenire sulla politica monetaria anzi continuando ad avere una politica monetaria molto espansiva. È anche la mia speranza. Però più passano i mesi i dati dell’inflazione continuano ad essere alti. Se l’andamento fin qui registrato dovesse prolungarsi le banche centrali potrebbero rivedere al rialzo i tassi d’interesse, smettere di fare quantitative easing e smettere di comprare titoli di Stato che per un paese come il nostro, molto indebitato, può essere un serio problema.
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Queste fiammate inflazionistiche da che cosa sono dovute principalmente?

Le politiche espansive fanno crescere la domanda e questo in un periodo di ripresa economica può far aumentare i prezzi. Si tratta di un passaggio che fino a un certo punto rientra nella normalità. Lo scorso anno la domanda era bassa e i prezzi sono scesi. La questione è che se il processo sulle politiche monetarie e fiscali continuerà a essere così espansivo e per tanto tempo a questo punto l’inflazione continuerà a crescere. L’inflazione è una grandezza che dipende dalla crescita della domanda. Se gli Stati per precauzione, per uscire molto rapidamente dalla crisi economica, pompano la quantità di potere d’acquisto nell’economia come quella che è stata fatta da tutti i paesi del mondo, a questo punto è ovvio che se stai incentivando una cosa anche se è giusto fare bisogna allo stesso tempo essere consapevoli che invece di aumentare la crescita reale ricade tutto sui prezzi.
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Quindi secondo lei quando finirà l’epoca dei tassi bassi di interesse, come l’Italia si deve attrezzare per evitare che il futuro rialzo dei tassi non porti a nuove criticità sui conti pubblici?

Bisognerà implementare il processo di crescita al di là di quello che stiamo sperimentando adesso. Il punto cruciale sarà vedere cosa succede dopo il primo trimestre del 2022 Nel primo trimestre raggiungiamo il livello di produzione dell’ultimo trimestre 2019. Da lì in poi vediamo, se riusciamo a crescere più rapidamente questa sarebbe una bella notizia per la sostenibilità dei conti pubblici.
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Qual è la sua opinione sulla global tax approvata nel recente G20 che dovrebbe riportare nei singoli paesi una parte del gettito fiscale delle grandi multinazionali?

È una cosa giusta bisognerà realizzarla. Non aspettiamoci cambiamenti rivoluzionari però è una cosa giusta. È la prima volta che tanti Paesi si mettono d’accordo sulle politiche di tassazione che sono l’essenza della sovranità dello Stato. Per la prima volta si ha un accordo internazionale sulle aliquote di tassazione. In passato questi accordi riguardavano solo lo scambio di informazioni per esempio per evitare l’evasione fiscale o elusione fiscale. Per quanto limitata sia, l’accordo raggiunto è una notizia importante anche simbolicamente.

Probabilmente non si poteva fare di più.
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Cosa pensa del reddito di cittadinanza la cui adozione è stata assai divisiva non solo nel panorama politico?

Un reddito minimo garantito esiste in tutti i paesi europei e in Italia è stato introdotto e va bene. Però quando è stato introdotto non si è tenuto conto di due problemi fondamentali: il primo è che troppo generoso per il singolo e poco generoso per le famiglie con figli. Le scale di equivalenza sono risultate a mio avviso sbagliate. Il secondo problema è che il reddito di cittadinanza dovrebbe portare le persone al di sopra della soglia di povertà come stabilita dall’Istat ma la soglia di povertà non è uguale in tutta Italia. Il costo della vita è più alto nelle grandi città rispetto alle piccole città è più alto al Nord che al Centro e al Sud. Quindi il reddito di cittadinanza dovrebbe riflettere quello che è il costo della vita nelle diverse parti d’Italia.

Deve necessariamente essere diversificato a seconda delle zone geografiche.
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Dal reddito di cittadinanza al salario minimo che in Italia stenta a decollare. Perché secondo lei?

Molti paesi europei hanno adottato entrambe le misure a tutela dei propri cittadini. Le difficoltà all’introduzione del salario minimo nel nostro Paese sono dovute da un lato all’obiezione dei sindacati che sostengono la non necessità in quanto ci sono i contratti nazionali che stabiliscono di fatto il salario minimo. Ma come ben sappiamo non tutti i lavoratori sono garantiti dalla contrattazione nazionale. Dall’altro lato si sostiene che portare il salario minimo a un livello troppo alto possa portare alla riduzione dell’occupazione.
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In Italia solo il 12% degli studenti riceve una borsa di studio, troppo pochi rispetto alla media europea del 25%

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Il Green Plan che è stato adottato dalla Comunità Europea ha l’ambizione di delineare un nuovo modello di sviluppo e può essere volano per ogni Paese aderente. Proprio su questo progetto sono emersi con forza le opposizioni di alcuni paesi dell’Est europeo facendo riaffiorare anche in questo caso anacronistici nazionalismi. Cosa a suo avviso si può fare per evitare che il Green Plan resti un sogno nel cassetto?

È un piano di transizione verso un’economia verde. I paesi che sono meno verdi al momento sono quelli dell’Est Europa. Sono proprio questi che devono fare gli sforzi maggiori per cambiare rotta. Come si può superare questa cosa sinceramente non lo so ma è chiaro che se tu sei un paese che inquina di più devi poter intervenire con maggiore impegno utilizzando anche i trasferimenti finanziari sia quelli strutturali che quelli della Next Generation EU che l’Europa ti garantisce. Se usufruisci di tali aiuti finanziari dall’Europa devi accettarne anche le regole e ad esse adeguarti. Se quei paesi in nome delle ideologie nazionaliste non vogliono adeguarsi abbandonino il club europeo. Mi sembra questa l’unica e logica conseguenza.
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Perché questo Paese in tutti i settori della vita sociale, economica, pubblica, sanitaria, giudiziaria, vanta migliaia e migliaia anche di buone leggi ma latita nelle politiche relative ai controlli, si rivela spesso incapace di istituire sistemi di monitoraggio efficaci? È come se fosse nel nostro Dna. E non mi sto riferendo come solitamente si fa alla lotta all’evasione fiscale…

Guardi non lo so, forse un sociologo potrebbe rispondere. Purtroppo credo che lei abbia ragione. Credo che sia così e che lo riveli la nostra storia culturale e politica. Si tratta di una condizione che bisogna combattere e superare con la pubblica istruzione, con la responsabilità e senso civico di tutti noi, con il rispetto delle regole. Evasione fiscale, corruzione tutte queste cose sono vere ma non dobbiamo perdere la speranza perché qualche miglioramento c’è stato. Per esempio per l’evasione fiscale dell’Iva si è ridotta più di un quarto dal 2017 al 2019. Insomma qualche buon risultato lo abbiamo raggiunto.
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Abbiamo parlato ampiamente di soglia di povertà, di reddito di cittadinanza, di salario minimo, di lavoro e occupazione. Sullo sfondo di questi temi credo aleggi il riconoscimento delle disuguaglianze accentuate negli ultimi due anni anche dalla pandemia. Un tema spesso ricorrente.

Purtroppo è così. Ma è importante però capire di che tipo di disuguaglianze stiamo parlando, disuguaglianze di possibilità e disuguaglianze dei risultati. Quello che è inaccettabile che ci siano disuguaglianze nei risultati che creino distribuzione del reddito eccessivamente dispersa e che le disuguaglianze rimanenti una volta tolti gli eccessi non siano giustificate. Bisogna premiare il merito se io invece non garantisco a tutti la possibilità di accedere alla Pubblica Istruzione per esempio, non sto premiando il merito, ma sto premiando il fatto che uno è nato in una posizione avvantaggiata. Infine tanto per indicare un dato, come previsto dal PNRR aumenteranno gli importi e anche i beneficiari delle borse di studio universitarie. In Italia solo il 12% degli studenti riceve una borsa di studio, troppo pochi rispetto alla media UE del 25%.

Intervista realizzata nel mese di dicembre 2021

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