InnovazionePA incontra Mario Nobile, il Direttore Generale di AgID, poco dopo il suo rientro dal World Government Summit di Dubai, dedicato al ruolo della trasformazione digitale di fronte alle grandi sfide del clima e della salute. Al centro del dibattito, temi trainanti come l’integrazione dell’intelligenza artificiale e nuove modalità di collaborazione tra pubblico e privato. Sono argomenti che incrociano molti punti e obiettivi fissati nel Piano Triennale per l’informatica nella Pubblica Amministrazione 2024 – 2026. In questa intervista cerchiamo di mettere a fuoco risultati e prospettive legate a questo piano e discutere le implicazioni per il futuro.
“Il Codice dell’amministrazione digitale quest’anno compie 20 anni e si tratta di una ricorrenza che in qualche maniera dovremmo celebrare. Il CAD è stato un punto di partenza cruciale che ha permesso lo sviluppo di numerose attività, strumenti e cambiamenti successivi.
Tra questi, per esempio, anche lo sviluppo del Piano Triennale per l’informatica nella Pubblica Amministrazione che ritengo sia uno strumento importante per avere una strategia tecnologica a livello Paese. Certo, già dal nome, si comprende che questo strumento comincia ad essere concettualmente datato: il triennio come orizzonte temporale è più un auspicio che un obiettivo.
L’orizzonte del triennio è illusorio, ce ne rendiamo conto, ma è comprensibile e visualizzabile. Mi spiego: tre anni danno la sensazione di essere un intervallo temporale nel quale sarà possibile effettuare tutta una serie di attività anche in un campo in rapida evoluzione come il nostro. Al tempo stesso siamo consapevoli del fatto che, nel frattempo, interverranno tutta una serie di fattori ‘normali’, come la mancanza di fondi o le evoluzioni tecnologiche che, nel campo della trasformazione digitale, con estrema velocità impattano e orientano, giocoforza, il piano originario su altre linee.
Ritornando per un momento al CAD, per esempio, nel 2005, seppe dare lettura a tanti fenomeni e impalcare corrette basi normative, ma non colse due ondate significative della trasformazione digitale: prima quella cibernetica e poi quella dei sistemi esperti, che si erano affacciati già all’inizio del 2000, sfociando nel machine learning come lo conosciamo adesso.
Il fatto è che, come persone, abbiamo una visione del mondo lineare.
Siamo abituati a pianificare nel tempo e non riusciamo a cogliere le esponenzialità, le curve ripide che deviano la traiettoria originaria. Con strumenti come CAD e il Piano triennale cerchiamo di dare una cornice normativa e di indirizzo alla nostra strategia digitale, ma non ci deve più sorprendere il fatto che devono essere continuamente adattati al mondo che cambia.
In sintesi, il Piano può essere montato ogni tre anni ma deve essere aggiornato ogni anno, molto velocemente, perché questa è la velocità richiesta dal settore”.
“Con documenti come questi c’è il rischio di scivolare nell’accademico e di non essere letti o compresi dalla maggior parte degli interlocutori. Mentre invece devono fornire punti di riferimento chiari.
L’aggiornamento è anche un modo per misurare i risultati raggiunti o la distanza da quelli previsti. Per molti aspetti i risultati sono stati importanti. Ce lo hanno riconosciuto anche molti interlocutori durante il World Government Summit.
Nel nostro Paese registriamo 40 milioni di transazioni al mese su Pagopa, per un controvalore di 9 miliardi di euro al mese; 51 milioni di voucher generati da amministrazioni sulla PDND interoperabilità. Sono numeri importanti, che hanno un peso e rendono l’idea di quello che potremmo ancora sviluppare.
Tuttavia, quello che dobbiamo fare con il Piano triennale non è tanto ‘far capire che si può fare’, o registrare i record, quanto mettere in condizioni le amministrazioni pubbliche di raggiungere gli obiettivi di riferimento, in tutti i territori, e abbiamo 23 mila pubbliche amministrazioni da armonizzare.
Per questo, il Piano triennale ha avuto bisogno di due modifiche alla traiettoria iniziale: la prima modifica mette a fuoco il fattore tempo; la seconda modifica mette a disposizione i toolkit che devono rendere più pervasiva la possibilità di seguire la transizione digitale.
Il Covid, per esempio, nella tragedia ci ha portato da 15 a 30 milioni di identità digitali in un solo anno. Possono esserci fattori di spinta e tecnologie emergenti in un dato momento, perciò, nel predisporre il Piano, dobbiamo chiederci come fornire alle singole amministrazioni l’insieme di tool necessari a mettere a terra i servizi digitali disponibili e i canali abilitanti predisposti. La strategia deve essere chiara, anche in uno scenario difficile da interpretare sul medio periodo come il nostro, ma occorre anche saper assestare la rotta quando serve.
Insomma, serve visione ed equilibrio. Il piano strategico equivale al piano industriale di un’organizzazione, è un qualcosa che, se viene fatto dalle multinazionali, decine di migliaia di persone al mondo seguono”.
“Questo è un altro punto significativo dell’aggiornamento. Occorre capire che i dati vanno curati come le piante in un uliveto, immagine cui tengo molto come pugliese. I dati, le piattaforme e i vari pezzi che compongono il nostro mondo non vanno soltanto costruiti e diffusi, vanno curati. Purtroppo, o per fortuna, oggi si affronta con maggiore attenzione il tema dei servizi condivisi e, in profondità, il tema dell’interoperabilità. Ci si accorge, allora, che in alcuni casi il dato non ha la qualità che ti aspettavi. Le piante sono malate e i frutti non puoi usarli. Perché se non lo usi, se l’informazione non esce dai suoi silos, se il dato lo proteggi bene, o meglio, lo nascondi, non vedi neanche quale sia la qualità di quello che hai a disposizione.
Credo, invece, questo sia un aspetto sul quale bisogna puntare l’attenzione: bisogna avere cura di quelli che sono i building blocks della public digital infrastructure come li definisce l’Ocse. In altre parole, per dare i servizi digitali ai cittadini e alle imprese, l’ecosistema della pubblica amministrazione deve essere in grado di utilizzare il ‘mattone’ dell’identità digitale, il mattone della firma elettronica, il mattone della fatturazione elettronica, quello dell’interoperabilità e della condivisione dei dati e quello dei pagamenti.
È dalla capacità di combinare questi mattoni che è possibile costruire servizi utili.
In primo luogo, sono importanti le strategie, ma poi occorre valutare la possibilità di mettere a frutto i dati che abbiamo o come migliorare la qualità di quello che possiamo ottenere da un patrimonio dati come quello, per esempio, di ANPR per aprire a nuovi servizi.
Bisogna trovare il modo di superare, oltre ai rischi di una bassa qualità dei dati condivisi, quel senso di freddezza rispetto alla condivisione del dato che ancora rimane un convitato di pietra.
Da un punto di vista mentale il data sharing viene ancora percepito come un rischio, una perdita di potere sia nelle organizzazioni pubbliche sia in quelle private. Il dato è potere, chi lo detiene ha un posizionamento che sente minacciato se deve condividerlo”.
“Ma come ho detto, per molti aspetti il Paese sta ottenendo dei grandi risultati, in proporzione alla sua popolazione. Su 59 milioni di abitanti abbiamo 40 milioni di SPID e 48 milioni di CIE.
Le caselle di posta elettronica certificata sono 17 milioni e abbiamo 35 milioni di certificati qualificati di firma digitale. Tutto questo, tornando all’inizio di questa discussione, è figlio di CAD, di EIDAS e di tutti i passaggi normativi e organizzativi che sono stati compiuti negli anni.
Tornando all’immagine precedente, le piante le stiamo curando e l’olio lo stiamo ottenendo; ce lo riconoscono anche a livello internazionale. È necessario, però trovare gli strumenti per accelerare e facilitare gli investimenti e lo sviluppo dell’innovazione”.
“Credo che il percorso vada agevolato. Imprese e pubbliche amministrazioni devono avere una detassazione sull’acquisto di questi strumenti. La piccola impresa manifatturiera deve avere poter avere ‘uno sconto in fattura’; la modalità va trovata ma deve essere concreta e semplice. Le logiche tipo Industria 4.0 o 5.0 equivalgono alle vecchie leggi sulla ricerca e lo sviluppo. Occorre qualcosa di più diretto e concreto. Allo stesso modo c’è la necessità che le spese, o meglio, gli investimenti di comuni e regioni non entrino nel patto di stabilità, altrimenti resteremo al palo. Abbiamo la necessità di comprare, costruire e formare. Ora se questo a livello di Strategia digitale lo abbiamo messo a fuoco ma la PA, in virtù dei vincoli di stabilità, non può fare formazione o sperimentare, il discorso è chiuso.
In secondo luogo, ritengo che sia veramente necessario riuscire a orientare il risparmio privato verso il settore tecnologico italiano ed europeo. In questo siamo veramente indietro. Pensiamo ai dati forniti dal Governatore della Banca di Italia: abbiamo 3.000 miliardi di debito pubblico, o poco più, ma anche 400 miliardi di flusso annuale di capitale privato che non viene investito in Italia”.
“Serve il coraggio di avvantaggiare questo capitale e chi investe. Invece di avere la tassazione del 25% sulla plusvalenza la devi mettere al 10%. Questo consente al capitale privato di generare investimenti in società italiane ed europee e quindi possiamo iniziare a pensare di competere con le imprese del resto del mondo.
Il terzo elemento è costituito dalle regole e dal tempo che in Italia e in Europa occorre per avviare i cambiamenti. L’AI Act è nato nel 2021, è stato approvato nel 2024, atterrerà completamente nel 2026. Sono 5 anni. Non è sostenibile. Anche in questo caso, non lo dico io, lo ha detto Mario Draghi di fronte al Parlamento Europeo. Dobbiamo metter mano al problema dell’overregulation. Non farlo ci rende il Paese dove l’intelligenza artificiale si blocca per decreto a tutela della privacy. E non voglio discutere nel merito sul tema dell’uso dei dati ma sul segnale che mandiamo al mondo come terreno su cui innovare.
Riassumerei in questo modo: abbiamo bisogno di piani strategici adeguati e lavorare alla valorizzazione e alla diffusione dei building blocks. Verso le imprese: semplificare norme e vincoli burocratici, agevolare gli investimenti privati, dare un’immediata possibilità di acquisito di nuovi strumenti e pillole di competenza alle nostre imprese”.
“Assolutamente sì, ma un cambiamento del genere non può essere operato attraverso ulteriori modifiche del Codice dei contratti pubblici. Inoltre, nel funzionario pubblico permane la resistenza a percorrere il rischio o i problemi che potrebbero sorgere dal percorrere una strada diversa da quella dai canali classici del procurement. Occorrerebbe una cornice diversa, uno spazio che offra strumenti di incubazione nei quali le imprese, per esempio, possano usare dataset pubblici di valore per la costruzione di nuovi servizi. Non penso solo agli open data ma alla vera informazione. Secondo me sarebbe necessario anche per dare un minimo di speranza a quel che è rimasto dell’ICT italiano”.
“Che partiamo da un’ottima base però possiamo andare molto avanti. L’accessibilità non riguarda soltanto le persone con disabilità permanenti, riguarda tantissimi di noi per aspetti diversi. E anche laddove sembra che l’usabilità di un servizio sia alta emergono condizioni che invece richiedono ulteriori adattamenti. Alcune persone ci hanno segnalato, per esempio, che la tempistica prevista dall’uso degli OTP per l’accesso ad alcuni servizi fiduciari per alcune persone è un ostacolo insormontabile. Allora, però, pensi a quante nuove soluzioni potremmo individuare grazie all’intelligenza artificiale generativa e gli strumenti evoluti di machine learning. Ci servono anche per risolvere problemi come tenere insieme la rigidità necessaria di un sistema di autentificazione multifattoriale e la necessità di usabilità da parte tutti”.
“Guardi anche se non è direttamente AgID a occuparsene, perché segue la cornice generale ma non l’implementazione diretta dei progetti in campo, io vedo la necessità di ultimare i lavori sugli strati abilitanti necessariamente con tutti i fondi del PNRR.
La missione digitalizzazione ha una dotazione economica importante e prevede varie azioni nello stack tecnologico. Ma ci giochiamo tante possibilità sulla connettività. Possiamo pensare a sviluppare i servizi più interessanti ma se poi abbiamo imprese o cittadini che restano tagliati fuori in tante parti del Paese abbiamo soltanto scavato ulteriormente il solco. Non possiamo e non dobbiamo sbagliare l’uso dei fondi per la banda ultra-larga. Purtroppo, o per fortuna, il nostro bellissimo paese ha l’orografia più complicata d’Europa, lo vediamo per le infrastrutture materiali e anche per quelle immateriali, ma è un obiettivo al quale non possiamo rinunciare né sul piano della competitività né su quello sociale”.
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