Mi piace se ti e-muovi: decarbonizzare i trasporti urbani si può

Le soluzioni esistono, ma le resistenze sono difficili da superare. Per molti scienziati, come il professor Ugo Bardi, l’elettrico è la scelta migliore. Il Comune di Bologna punta, invece, sugli autobus a idrogeno
24 Novembre 2023 |
Giulia Galliano Sacchetto

In un articolo apparso sulla rivista austriaca Westpennest e poi pubblicato su Internazionale a settembre 2019, i giornalisti austriaci Daniel Pelletier e Maximilian Probst elencano tra i sette peccati capitali del giornalismo ambientale il trasmettere un’idea negativa della decarbonizzazione, presentata come un fenomeno che comporta rinunce e sacrifici, passando così il messaggio che cambiare stile di vita e di produzione implichi un impoverimento. Sebbene vi siano numerosi esempi che provano il contrario, questa percezione è ancora diffusa, in Italia più che altrove, tra cittadini, politici, amministratori, imprenditori. Eppure l’Italia ha una quantità ingente di energie rinnovabili a disposizione, che possono giocare un ruolo di primo piano nel sostituire la fornitura di combustibili fossili, resa più complicata dalla guerra provocata dall’invasione della Russia in Ucraina.

La percezione negativa riguarda anche e soprattutto le conseguenze delle politiche di decarbonizzazione sulla mobilità urbana specie privata, forse perché è quella che tocca i singoli più da vicino. Non a caso il governo ha opposto forti resistenze alla proposta europea di proibire la vendita di auto a motore endotermico dal 2035. E, sempre non a caso, i blocchi alla circolazione dei mezzi più inquinanti nelle città fanno sempre mugugnare qualcuno. E allora ecco che Torino, ad esempio, revoca le limitazioni alla circolazione dei mezzi più inquinanti a Natale o Ferragosto perché le persone siano libere di spostarsi nell’aria insalubre. A Milano, invece, l’aumento previsto del pedaggio per entrare nell’Area C scatena proteste di cittadini che sostengono che il Comune voglia creare una città per ricchi. Per contro va detto che i continui aumenti del prezzo dei biglietti per i mezzi pubblici non ne incentiva l’uso, e fa sorgere dei dubbi sul reale interesse dell’amministrazione per un rafforzamento dell’uso del trasporto pubblico a scapito di quello privato. Ma comunque le resistenze a una diminuzione dell’utilizzo dell’auto privata in area urbana sono dure a morire. E non solo privata: basti pensare ai mezzi di trasporto pesanti che fanno consegne a qualsiasi ora del giorno aumentando esponenzialmente le emissioni inquinanti e provocando, come è accaduto recentemente, incidenti mortali: al 31 agosto 2023 27 sono i ciclisti morti in incidenti stradali. La distribuzione delle merci in area urbana è, dunque, un altro punto critico.

Il 73% degli europei vive attualmente in città, e si prevede che questa percentuale salirà all’82% nel 2050. Le aree urbane generano l’85% del Pil europeo. Nel 2019, il trasporto merci era responsabile di oltre il 40% di tutte le emissioni di Co2 legate ai trasporti, e si prevede che la domanda raddoppierà nel prossimo trentennio. Uno studio del World Economic Forum stima un aumento del 30% delle emissioni di gas serra e un ulteriore incremento di undici minuti nel tempo medio di spostamento giornaliero nel 2030 rispetto al 2019, dovuto esclusivamente all’aumento delle attività di consegna dell’ultimo miglio.

Bisogna ricordare poi che l’Europa ha fissato degli obiettivi precisi in termini di decarbonizzazione, tra cui dimezzare il tasso di veicoli in circolazione, far crescere ed elettrificare il trasporto pubblico, aumentare la mobilità a piedi e in bicicletta e riequilibrare la modalità di spostamento privilegiando sistemi sostenibili. Obiettivi che, se non raggiunti, potrebbero portare a sanzioni. Ma, più di tutto questo, dovrebbe contare la salute.

A Londra negli ultimi 3 anni sono stati 4mila i morti per inquinamento, in Italia ogni anno sono circa 60mila, e il fatto che il Covid abbia fatto molte vittime in un’area inquinata come quella tra Bergamo e Brescia potrebbe essere l’ennesima conferma del legame stretto tra qualità dell’aria e qualità della vita. Ma, nonostante questi dati, la mentalità italiana sembra più orientata al quieto vivere, con l’Europa spesso additata come colpevole dei blocchi ai mezzi più inquinanti e degli incentivi ai veicoli ecologici. Sembra quindi che sia necessario quanto prima un cambio di mentalità, come sottolinea il Presidente del comitato Torino Respira Roberto Mezzalama in un articolo su La Stampa, “dobbiamo inquinare meno per la salute, non perché ce lo chiede l’Europa”. E la salute, si dice, viene, o dovrebbe venire, prima di tutto.

L’elettrico è la via: intervista
al professor Ugo Bardi

Dalla proposta di revisione del PNIEC (Piano Nazionale Integrato Energia e Clima) italiano, elaborato dal sottogruppo “Mobilità” del Gruppo di lavoro ASviS (Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile) sul Goal 11 “Città e comunità sostenibili” e curato dal membro delle segreteria nazionale di Legambiente Andrea Poggio, emergono alcuni dati interessanti. Le informazioni fornite dal GSE (Gestore dei servizi energetici) rivelano che nel 2021 il settore trasporti in Italia ha consumato poco più di 36 Megatep (milioni di tonnellate equivalenti di petrolio) di energia, pari al 32% dei consumi energetici totali (fonte Eurostat); rispetto al 2020, anno della pandemia, si rileva un incremento di ben 6,5 Megatep (+21%). I primi dati del MASE (Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica) per il 2022 mostrano un ulteriore incremento del 2% dovuto soprattutto al consumo di benzina. Il settore è fortemente dipendente dai prodotti petroliferi (90,5% del dato complessivo), e in particolare dal diesel/gasolio (59,8%) e dalla benzina (20%). L’elettricità contribuisce ai consumi finali del settore per il 2,7% (1,7% da fonti fossili). Un contributo ancora scarso, sebbene l’elettrico sia la via suggerita da gran parte del mondo scientifico, come spiega ad Innovazione Pa il professor Ugo Bardi dell’Università degli Studi di Firenze.

Qual è l’elemento chiave della decarbonizzazione dei trasporti in area urbana?

La nostra società esiste perché ci sono i trasporti. Quello marittimo, ferroviario ed aereo, hanno creato la globalizzazione, e poi c’è quello privato. Ma il trasporto oggi si basa ancora quasi del tutto sul petrolio. Dobbiamo organizzarci per far muovere tutto il sistema verso un tipo di tecnologia che non richieda più combustibili fossili: in questo senso l’elettrico, secondo me, è l’idea migliore, per tutte le esigenze. Oggi abbiamo tutte le tecnologie necessarie per mettere in atto questa transizione. Certamente questo significherà anche una perdita di potere per alcune realtà consolidate da anni. Questa evoluzione è analizzata dal mio nuovo libro “Il Futuro dei Trasporti”, che uscirà in autunno.

Quali sono i parametri europei da raggiungere a livello urbano e qual è la situazione attuale in Italia?

L’Italia dipende dai target UE e sta cercando di fare il possibile per raggiungerli, nonostante le resistenze. Basti pensare che il nostro è stato tra i pochi paesi ad opporsi all’elettrificazione del trasporto urbano, spostandosi invece verso gli e-fuel (carburanti sintetici), costosi, poco pratici e comunque inquinanti. Non a caso, se guardiamo le statistiche, l’Italia è in fondo alla classifica sulle vendite annuali di veicoli elettrici privati. Ce la giochiamo con la Polonia attorno al 3-4%, mentre la Norvegia è al 90%. Per quanto riguarda i Comuni italiani è difficile esprimersi. Un esempio, negativo secondo me, è quello del Comune di Bologna che ha impegnato oltre 100 milioni di euro per la decarbonizzazione basandosi sui bus a idrogeno, che sono più cari dei bus a batteria e non portano nessun vantaggio ecologico (vedi la replica del Comune di Bologna). A cavallo tra gli anni ’80 e 90’ il Comune di Firenze si propose pionieristicamente tra le prime città del mondo a muoversi a batteria, ma si trattava di un’iniziativa personale del sindaco, laureato in fisica e sensibile a queste tematiche. Dopo di lui nessuno ha più continuato. Più in generale sembra che la maggior parte dei Comuni sia amministrata da persone miopi su questi argomenti: sarebbe sufficiente seguire l’esempio di paesi come la Norvegia.

Quali sono i prossimi passi da compiere per l’Italia?

Dobbiamo darci una mossa: de-provincializzarci, smettere di pensare che possiamo permetterci di rimanere isolati, seguire l’andamento del mercato nel mondo e investire nelle rinnovabili. Va ricordato che più energie pulite abbiamo meno ci costa l’importazione di petrolio. Sulle rinnovabili si potrebbe fare di più, ma tutto sommato l’Italia sta andando abbastanza bene, con poche resistenze di base al cambiamento.

Secondo lei c’è la consapevolezza che l’auto elettrica di per sé è neutra? Che il suo essere verde dipende dalla provenienza dell’energia con cui è alimentata?

É comunque più verde rispetto ad altre soluzioni. Anche perché in Italia si usa già molta energia rinnovabile. Circa il 40% dell’energia elettrica lo è. Si tratta di continuare a muoversi in questa direzione. L’auto elettrica è un punto chiave della transizione: bisogna far capire alla gente che non è vero che con le macchine elettriche serve più energia, al contrario, l’auto elettrica ne fa risparmiare e ci consente di importare meno petrolio. La conoscenza delle persone è fondamentale, anche perché in Italia una buona metà di popolazione non si può spostare senza auto privata. C’è poi un altro punto cardine del trasporto, ovvero la necessità di sostituire i tir alimentati a diesel.

A che punto è l’Italia riguardo lo smaltimento delle batterie dei veicoli elettrici?

É un non problema: per il momento non c’è uno scarto, perché quando le batterie vengono sostituite sono riutilizzate per applicazioni stazionarie. Così come non c’è stato un problema con le vecchie batterie al piombo, in uso per un secolo: ne sono state prodotte miliardi. Ma non ci sono batterie al piombo abbandonate in discarica perché vengono riciclate. La stessa cosa avviene per le batterie al litio.

Scelte come l’aumento del prezzo dei biglietti dei mezzi pubblici a Milano o l’interruzione del divieto di circolazione dei veicoli inquinanti a Natale o a Ferragosto a Torino, non sembrano giocare a favore della decarbonizzazione…

Quel che è peggio è che ci troviamo di fronte ad una campagna anti elettrico ripresa da più parti. Questo ci separa dal resto del mondo che, invece, va chiaramente verso la trazione elettrica veicolare su terra. Inoltre, è difficile forzare la mano su certi argomenti. La percezione pubblica in questo senso non è chiara: c’è molta gente genuinamente convinta che tutto venga fatto per obbligarla a spostarsi a piedi. E su questo punto anche l’industria dell’auto ha le sue colpe, soprattutto quella italiana. In tempi non sospetti Sergio Marchionne disse che i veicoli elettrici non avevano futuro. Oggi Stellantis si trova un po’ spiazzata. Il lavoro che andava fatto, secondo me, era adattare il concetto di veicolo elettrico alla situazione europea ed italiana. Quella che ha sfondato le barriere in questo senso è stata la Tesla, ma solo per quanto riguarda il mercato del lusso. Quindi molta gente si è sentita tradita. A tutto questo si accompagna poi una politica discutibile per ciò che riguarda i prezzi. I veicoli elettrici sono ancora nettamente più cari di quelli a motore endotermico, mentre se si analizza nei dettagli la costruzione del veicolo elettrico si conclude che, al contrario, il prezzo finale dovrebbe essere molto più basso. Al momento, insomma, non ci sono le utilitarie elettriche. Ma le cose devono necessariamente cambiare e bisognerà rimediare anche a questo.

La situazione nelle città italiane

Sono molte le città italiane che hanno avviato progetti per una mobilità urbana più attenta alla sostenibilità: iniziative in tema di MaaS, città a 30km/h e smart parking, di cui molto abbiamo scritto su queste pagine. Ma c’è ancora tanto lavoro da fare. Il rapporto MobilitAria 2023, realizzato dalla coalizione europea Kyoto Club e dall’Istituto sull’inquinamento atmosferico del CNR (Consiglio nazionale delle ricerche), ha analizzato la qualità dell’aria e della mobilità nelle 14 città metropolitane italiane (Bari, Bologna, Cagliari, Catania, Firenze, Genova, Messina, Milano, Napoli, Palermo, Reggio Calabria, Roma, Torino, Venezia) con i dati relativi all’anno 2022 o all’ultimo anno disponibile. Inoltre, per la prima volta, ha rilevato per ciascuna il “deficit di mobilità sostenibile” ossia la distanza dagli obiettivi di decarbonizzazione al 2030 per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050 a cui l’Unione europea mira con il Green Deal. A livello europeo l’uso di energia è responsabile del 77,1% delle emissioni di gas serra: di queste circa un terzo è dovuto ai trasporti e oltre il 70% di questi avviene ancora su strada. Questo, soprattutto nelle aree urbane, contribuisce in maniera importante sia alle emissioni di Co2 che di sostanze inquinanti. Secondo i dati più recenti forniti dall’ISPRA (‘Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), dal 1990 al 2019 l’incidenza delle emissioni di CO2 da trasporto stradale nelle 14 città metropolitane è aumentata complessivamente dal 21% al 34%. La situazione nelle città è piuttosto diversificata, con Bologna e Roma che registrano la maggior crescita (+50%). Ma, in generale tutte e 14 devono mettere in atto azioni molto significative per ridurre le emissioni al 2030 o azzerarle come nel caso di Bologna, Milano, Firenze, Roma e Torino che fanno parte delle nove città italiane selezionate per la campagna europea “Netzero2030”. Non va meglio per quanto riguarda le concentrazioni degli inquinanti biossido di azoto e PM2,5 e PM10, i più critici per la salute, sia degli ecosistemi che umana. L’analisi rileva che, nel 2022, solo la città di Reggio Calabria registra, per tutti e tre gli inquinanti, valori al di sotto delle nuove soglie individuate nella proposta della nuova direttiva sulla qualità dell’aria presentata dalla Commissione europea ad ottobre 2022, su cui è in corso il negoziato. Una volta adottata entrerà progressivamente in funzione arrivando a pieno regime nel 2030. Riguardo le 14 città considerate, nella maggior parte dei casi le concentrazioni annuali e il numero di superamenti delle soglie si discostano di molto dai nuovi possibili valori limite, risultato di un compromesso tra i parametri vigenti e quelli raccomandati dall’Organizzazione mondiale della sanità. Per quanto riguarda gli obiettivi al 2030 delle 14 città prese in esame l’analisi riporta la distanza tra la situazione attuale e quella che si persegue, con un numero o “indice sintetico” che include la media dei valori di cinque indicatori chiave: l’offerta di trasporto pubblico non inquinante, l’estensione di piste ciclabili rispetto al numero di abitanti per la “mobilità attiva”, il numero complessivo di veicoli in sharing ogni 10mila abitanti per la “mobilità condivisa”, il numero di auto ogni mille abitanti per valutare i progressi verso l’obiettivo di dimezzamento del tasso, e infine la ripartizione modale, misurata come differenza tra l’obiettivo del 65% di mobilità sostenibile (trasporto pubblico + mobilità attiva + mobilità condivisa) rispetto alla situazione attuale. Sorprendentemente, con un -32%, è Milano la città che più si avvicina ai target europei, ultima è Catania con -76%. Complessivamente, dal 2015 al 2020, nelle 14 città ci sono stati incrementi ridotti per le reti di metropolitane e tram non inquinanti, mentre l’aumento è maggiore per le reti filoviarie che passano da 127 a 180 km. Nel 2020 le flotte di autobus sono costituite per il 62% da mezzi più inquinanti e la situazione è peggiore rispetto alla media nelle città di Cagliari, Napoli e Catania. Le piste ciclabili sono in media 1,5km ogni 10mila abitanti, un dato ben lontano da quello ottimale di almeno 10km e lontanissimo dalle città europee, come Helsinki (20km) e Amsterdam (15 km). In quasi tutte le città è aumentato, anziché diminuire, il numero di auto circolanti per abitante nel periodo 2016-2021: dato che colloca l’Italia tra i Paesi europei con il più alto tasso di motorizzazione. Nel 2021 il tasso di mortalità è aumentato in ben dieci città e il tasso di incidentalità in tutte tranne a Bari, in cui è sceso. Per quanto riguarda la ripartizione modale, secondo i dati dell’indagine Audimob, condotta da ISFORT (Istituto Superiore di Formazione e Ricerca per i Trasporti), tutte le città prese in esame devono fare sforzi importanti per raggiungere l’obiettivo di spostamenti con mezzi motorizzati privati che non superino il 35% sul totale, una realtà ampiamente esistente in molte città europee; nel periodo 2017-2019 i valori oscillavano dal 51% di Genova al 76% di Reggio Calabria e Messina. MobilitAria analizza, infine, per ogni città, i PUMS (Piani Urbani della Mobilità Sostenibile), cioè lo strumento che le amministrazioni hanno a disposizione per agire in ottica di decarbonizzazione. I piani mirano, principalmente, a potenziare le reti del trasporto collettivo, a ridurre la congestione stradale e le emissioni dei veicoli pubblici e privati, a far crescere la mobilità attiva a piedi e in bicicletta e a estendere la mobilità condivisa. Il rapporto suggerisce alcune misure per accelerare la decarbonizzazione. Tra queste figurano la promozione della ripartizione modale, assicurando le risorse per realizzare i 350 km aggiuntivi di trasporto pubblico su ferro previsti dai Pums, aggiungendo almeno altri 150 km, colmando il divario di trasporto ferroviario locale e incrementandone gli investimenti, acquistando con i fondi pubblici solo autobus elettrici, integrando i diversi servizi di mobilità e promuovendo la mobilità condivisa anche con agevolazioni fiscali, aumentando il Fondo nazionale trasporti annuale fino a sei miliardi entro il 2025. Un’altra misura suggerita dal rapporto è quella di quadruplicare la disponibilità di corsie e piste ciclabili arrivando a 20mila km sul territorio nazionale entro il 2030, ripensando al contempo gli spazi urbani e ampliando il più possibile le realtà di “Città 30km/h” che prevedono ampi interventi di riqualificazione urbana, a beneficio della sicurezza delle persone e della socialità. Il rapporto consiglia anche di puntare sull’elettrificazione dei veicoli pubblici e privati e destinare gli incentivi solo ai mezzi interamente elettrici e approfondire gli studi sugli effetti sulla salute dell’inquinamento atmosferico proveniente da più settori, aggiornando i Piani regionali per la qualità e il risanamento dell’aria e il Piano nazionale integrato energia e clima per il settore dei trasporti.

Per quello che riguarda il trasporto merci in aree urbane, lo scorso aprile è stato lanciato il progetto GRETA (Greening Regional Reight Transport in FUA), coordinato dal ITL (Istituto sui Trasporti e la Logistica. Si tratta di un progetto ambizioso, che si svilupperà nel corso dei prossimi 36 mesi, con l’obiettivo di promuovere la decarbonizzazione delle consegne nell’ultimo miglio all’interno delle FUA (Functional Urban Area) dell’Europa Centrale, riducendo così le emissioni di gas serra e migliorando la qualità della vita. Il progetto si concentrerà sull’implementazione di soluzioni sostenibili condivise tra le diverse città coinvolte nel progetto, rendendole facilmente replicabili. Le soluzioni strategiche e tecnologiche proposte prevedono l’utilizzo di veicoli elettrici a zero emissioni e cargo bike, l’organizzazione degli spazi pubblici tramite il curb management e l’implementazione di partnership pubblico-privato finalizzate a promuovere la qualità delle consegne e il benessere delle città coinvolte. Il progetto coinvolgerà cinque Functional Urban Area (FUA): Maribor, Poznan, Budapest, le italiane Reggio Emilia e Verona, e Berlino in qualità di osservatore.

Un esempio dall’Europa:
accade a Monaco di Baviera

Parlando di decarbonizzazione della mobilità urbana, un esempio da citare è quello di Monaco di Baviera. Il primo piano per migliorare la qualità dell’aria risale a tredici anni fa; tre anni dopo dal Comune è partita la richiesta al ministero di un ulteriore aggiornamento delle misure di contenimento dell’inquinamento riferite ai trasporti. La richiesta, specificata nel dettaglio, chiedeva di sviluppare il piano in tre fasi: deviazione del traffico di mezzi pesanti oltre le 3,5 tonnellate sul raccordo autostradale esterno alla città e istituzione del divieto di circolazione per i mezzi pesanti nel territorio comunale di Monaco, per diminuire di almeno il 10% il traffico sulle strade urbane, istituzione di una speciale “zona ambientale” al centro della città di ben 44 kmq con limiti di accesso per i veicoli più inquinanti, ossia quelli appartenenti alla categorie inferiori a Euro 2 e non catalizzati, revisione del territorio interessato dalle misure, integrando la periferia dell’area metropolitana. L’investimento dell’amministrazione sui punti cruciali del traffico delle merci con servizi pubblici innovativi, sulla politica dei parcheggi con la restrizione delle aree di sosta all’interno del raccordo anulare per i non residenti e autorimesse interrate per i residenti e sulla forte promozione del trasporto pubblico locale e della mobilità ciclo-pedonale, sono stati la base di una svolta epocale rispetto alle tradizionali politiche basate su semplici sistemi di disincentivazione. Per quel che riguarda i processi e le relazioni politiche, l’approccio adottato, insieme alle azioni mirate sul tema dell’ecologia urbana, al coinvolgimento di associazioni ambientaliste e organizzazioni di automobilisti, alla partecipazione a reti internazionali di città, sembra innovare le forme di intervento pubblico e privato sviluppando nuove risposte non solo tecniche, ma che si pongano anche l’obiettivo di operare cambiamenti nell’atteggiamento dei cittadini a tutela dei loro spostamenti.

Il rebus carburanti

Quando si parla di decarbonizzazione della mobilità urbana non si può non parlare dei carburanti. Nella proposta di revisione del PNIEC di ASviS si suggerisce con forza una revisione volta ad abbandonare l’enfasi attribuita ai biocarburanti non avanzati, talvolta di dubbia origine e di scarso contributo alla decarbonizzazione del settore. Nelle proposte dell’ASviS si riconosce un ruolo maggiore all’elettrificazione nei trasporti terrestri delle persone e delle merci, sia su ferrovia che su gomma, concentrando lo sviluppo dei biocarburanti avanzati, dell’idrogeno verde o dei combustibili sintetici di origine non biologica (RFNBO) sui trasporti navali e aerei non elettrificabili. Secondo il documento ASviS, l’elettrificazione dei mezzi di trasporti terrestri su gomma e su ferro, insieme al ruolo dirompente della digitalizzazione dei servizi sia passeggeri che merci, permettono un maggior incremento dell’efficienza energetica e della decarbonizzazione del settore rispetto a uno scenario fondato sui biocarburanti. Questi nuovi orientamenti strategici sono previsti in graduale crescita nei prossimi anni e sono allineati con i nuovi obiettivi di decarbonizzazione europei, che saranno oggetto della prossima Direttiva sulle fonti di energia rinnovabile RED III (Renewable energy directive, ndr), della negoziazione sulle proposte revisione dei PNIEC di ciascun Stato membro tra il giugno 2023 e il giugno 2024 e della necessaria revisione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) italiano alla luce del Piano Repower EU. Ma l’Italia sembra avere una predilezione per i biocarburanti. Il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin li aveva benedetti presentandoli come “in grado di sostituire la benzina e il diesel e salvare l’industria automobilistica italiana”. In effetti, nel 2021 i
biofuel hanno coperto il 3,6% della domanda globale di energia per i trasporti, principalmente per il trasporto su strada. Nello scenario Net Zero, il contributo dei biocarburanti ai trasporti dovrebbe quadruplicare al 15% nel 2030, rappresentando quasi un quinto della domanda di carburanti per i soli veicoli stradali. Ma sempre nel 2021 è stato pubblicato uno studio che evidenziava come sia le colture per la produzione di biocarburanti di prima generazione e, in misura minore, quelle per la produzione di biocarburanti di seconda generazione, riducano la biodiversità locale. Ma questa non è l’unica ombra che grava sui biofuel. Nelle raffinerie italiane vengono prodotti 1,7 milioni di tonnellate di biocarburanti ogni anno, di cui circa 900 mila tonnellate da sole due fonti: gli oli esausti da cucina (Uco) e i grassi animali, prodotto di scarto dell’industria zootecnica, di cui l’Italia è il principale utilizzatore in Europa. Ed entrambe queste fonti possono essere soggette a frodi riguardanti la qualità e il prezzo del prodotto. Ma, nonostante le criticità commerciali e ambientali, il governo italiano sta spingendo sull’uso dei biofuel. ENI è il principale produttore europeo di Hvo, un diesel 100% prodotto da biomassa. Il colosso pianifica di produrne, entro il 2030, cinque milioni di tonnellate. Un quantitativo sufficiente a fa muovere il 20% delle auto italiane; peccato che, con la stessa energia impiegata per produrlo, si potrebbe alimentare una quota più che tripla di auto elettriche, ottenendo quindi anche un proporzionale risparmio di emissioni.


Giulia Galliano Sacchetto
Giornalista professionista, con alle spalle esperienze in diversi campi, dalla carta stampata al web. Mi piace scrivere di tutto perché credo che le parole siano un’inesauribile fonte di magia.

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