La scienziata del Sole

Denise Perrone, ricercatrice dell’Agenzia Spaziale Italiana, si racconta ad Innovazione Pa
18 Aprile 2024 |
Giulia Galliano Sacchetto

Si definisce una persona con la valigia sempre pronta, è calabrese di origine e romana d’adozione. A 38 anni è ricercatrice a tempo indeterminato presso l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), nonché mamma di una bambina di due anni. Denise Perrone è una donna che è riuscita a realizzare il sogno che aveva fin da piccola: studiare il Sole. E l’ha fatto in un mondo che, a partire dalla scuola, fatica ancora a vedere le donne studiare le materie cosiddette STEM e a ricoprire ruoli rilevanti in campo di ricerca scientifica. Uno stereotipo senza senso perché, come ricorda la dottoressa Perrone, “la scienza non è né maschio né femmina”.

Ci racconta la sua attività di ricercatrice?

Mi occupo delle particelle cariche che arrivano dal Sole e interagiscono con il campo magnetico terrestre, dando origine alcune volte alle cosiddette tempeste solari: per intenderci sono quelle che generano le aurore boreali, ma possono anche interagire con le telecomunicazioni, i sistemi gps e i viaggi aerei causando diversi problemi. Nell’Ottocento, per fare un esempio, ci fu un blocco totale delle comunicazioni telegrafiche dovuto all’arrivo di queste particelle energetiche. L’episodio è conosciuto come evento di Carrington. Si tratta della più grande tempesta solare mai osservata dagli astronomi. Venne registrata il primo settembre del 1859 e i suoi effetti furono visibili su tutta la Terra dal 28 agosto al 2 settembre. La tempesta provocò notevoli disturbi all’allora recente tecnologia del telegrafo, causando l’interruzione delle linee telegrafiche per 14 ore, e produsse un’aurora boreale visibile anche a latitudini inusuali, come a Roma, in Giamaica, alle Hawaii e a Cuba.. Gli effetti di queste tempeste sulla Terra sono dunque reali e misurabili. Inoltre, attualmente siamo in una fase di massimo del ciclo solare quindi questa attività è ancora più forte, tant’è che spesso si leggono sui giornali articoli sugli effetti delle tempeste solari e le aurore da loro generate. É il campo di ricerca dello Space Weather, che dunque non è solo previsioni meteo spaziali ma anche analisi dell’impatto dell’attività solare sulla Terra.

Qual è stato il suo percorso professionale?

Mi sono laureata in Astrofisica e Plasmi all’Università della Calabria, conseguendo poi un dottorato in Fisica dei sistemi complessi: la prima parte l’ho svolta sempre all’università della Calabria mentre per la seconda sono stata per sette mesi al Max Planck Institute di Katlenburg-Lindau in Germania. Sono poi rientrata per concludere il dottorato e ho ottenuto un assegno di ricerca di un anno sempre all’Università della Calabria. Dopodiché ho lasciato nuovamente l’Italia e ho lavorato in diversi paesi europei. Sono stata per due anni all’Observatoire de Paris-Meudon, dove ho lavorato in un team che stava realizzando uno strumento per la missione Solar Orbiter. Al termine di questo periodo ho vinto un posto da Research Fellow all’Agenzia Spaziale Europea (ESA) e mi sono dunque trasferita a Madrid dove sono stata due anni e mezzo, lavorando nel gruppo che stava preparando la missione Solar Orbiter. Un posto che ho lasciato quando ne ho ottenuto un altro all’Imperial College di Londra: qui il mio supervisor stava lavorando ad un altro strumento, sempre legato alla missione Solar Orbiter. Avevo un contratto per due anni a Londra, ma dopo un anno e mezzo sono rientrata in Italia, facendo un concorso all’Agenzia spaziale italiana, dove continuo ad occuparmi della missione Solar Orbiter, di cui sono ASI Project Scientist. Missione che è partita nel febbraio 2020, io sono entrata in ASI il primo maggio 2019 quindi ho vissuto sia il momento culminante dei preparativi per il lancio, sia la fase successiva, ancora in corso, della raccolta e analisi dei dati. Diciamo che fin qui la mia carriera professionale è stata legata a questa missione, soprattutto agli strumenti in situ, cioè quelli che permettono di fare misure in loco del plasma.

In che cosa consiste la missione Solar Orbiter?

É la prima delle missioni M (Medium) del programma “Cosmic Vision 2015-2025” dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA). Svolta in collaborazione con la NASA, Solar Orbiter ha come obiettivo principale lo studio del Sole e di come questo determini le condizioni fisiche dello spazio interplanetario. La nostra stella, sorgente principale dello Space Weather e del vento solare, rappresenta un laboratorio naturale per la fisica del plasma, che permette di studiare processi fisici in condizioni difficilmente riproducibili sulla Terra, e a scale spaziali e temporali non accessibili in altre sorgenti astrofisiche. La missione, lanciata a Febbraio 2020 dal Kennedy Space Center (Cape Canaveral, Florida), con un set di 10 strumenti (6 di remote sensing e 4 in-situ), è in grado di osservare simultaneamente diversi strati dell’atmosfera solare e di analizzare contemporaneamente in-situ, fin dentro l’orbita di Mercurio, le caratteristiche del plasma che dall’atmosfera solare stessa viene espulso e accelerato nello spazio interplanetario. L’azione combinata di strumenti di remote sensing ed in-situ sulla stessa sonda sta permettendo di fare luce sui meccanismi attraverso i quali il Sole governa le condizioni fisiche dello spazio circostante e che a volte, attraverso violente eruzioni di plasma, possono avere effetti importanti sulla vita e sulla tecnologia terrestre.

Si parla spesso di fuga di cervelli all’estero, ma la sua storia dimostra che è anche possibile ritornare…

Ho avuto la possibilità di tornare, perché c’è stato questo concorso che io non ho vinto, ma sono entrata per scorrimento di graduatoria. Ho accettato di tornare anche perché secondo me l’Italia, tra scuole, università e dottorati, investe veramente molto nella formazione delle persone. Dalle esperienze vissute in giro per l’Europa ho imparato moltissimo, sia dal punto di vista scientifico che personale, per cui volevo restituire al mio paese di origine un po’ di quello che mi aveva dato, portando in dote anche l’expertise appresa all’estero. In gioco c’è stato anche un fattore personale: quando lavoravo in Spagna mi sono sposata, ma mio marito è sempre rimasto a lavorare in Italia, quindi il concorso è stata l’occasione per riavvicinarci. Ho comunque partecipato anche ad altri concorsi in giro per l’Europa, sempre tenendo a mente quello che volevo fare dal punto di vista professionale e dove avrei potuto farlo in maniera fruttuosa.

Quindi, in generale, secondo lei c’è la possibilità per i ricercatori italiani che lavorano all’estero di rientrare?

Purtroppo bisogna dire che la via del precariato è ancora molto presente, si pensi agli assegni di ricerca, e alla lunga diventa molto pesante, ti costringe a saltare da un contratto a tempo determinato ad un altro, cambiando magari anche città se non paese e dunque stile di vita. Io adesso conosco quattro lingue, ma all’inizio non è stato per niente facile, perché un conto è andare in vacanza in un paese estero e apprezzarlo per un paio di giorni, un altro è doverci vivere. Una situazione che diventa sempre più pesante man mano che si cresce, perché non permette al ricercatore di mettere radici in nessun luogo e gli affolla di continuo la mente con pensieri legati alle situazioni future. Ma non bisogna pensare che sia una situazione limitata all’Italia perché anche in diversi contesti esteri funziona così. Gli stessi contratti che ho avuto io in Europa erano a tempo determinato. Va anche detto che gli spostamenti possono arricchire, sia professionalmente che personalmente, permettono di fare nuove esperienze ed interfacciarsi con colleghi di altri paesi. Per questo, secondo me, è comunque importante fare qualche esperienza di questo tipo. Come è importante avere la possibilità di rientrare. Poi ci sono anche diversi colleghi che scelgono di non tornare per le ragione più svariate (professionali, personali…). Ma tanti vorrebbero rientrare. Alcune possibilità ci sono: ad esempio, un mio carissimo amico è tornato in Italia grazie al programma Rita Levi Montalcini, dedicato proprio a questo. Ma le opportunità sono comunque poche se rapportate al numero di ricercatori italiani che vorrebbero rientrare. In più chi sceglie di tornare tendenzialmente lo fa se si tratta di un lavoro importante, magari con un contratto non a tempo determinato.

E al momento lei non sente l’esigenza di spostarsi nuovamente?

Questa è una domandona… diciamo che qui dove sono mi trovo molto bene e sono veramente contenta. Certo ci sono diverse cose che mi piacerebbe fare, ma sono anche influenzata dal contesto familiare. Ho una bimba di due anni e quindi mi si pone il problema di sradicarla da un luogo per portarla in un altro. É qualcosa che, da una parte, le permetterebbe di rapportarsi con altre realtà, conoscendo lingue e culture diverse, ma dall’altra parte la priverebbe delle radici, che, anche vista la mia esperienza, ritengo importanti. Io comunque sono soddisfatta di quello che ho fatto, non ho rimpianti perché sono riuscita a fare tutto quello che mi ero proposta, ho avuto la possibilità di lavorare in diversi contesti di altissimo livello, e comunque continuo ad avere collaborazioni da tutto il mondo e a viaggiare molto, anche se la pandemia in questo senso ha frenato un po’ gli spostamenti.

Lei è dunque una mamma lavoratrice… come concilia i due mondi?

Sicuramente non è facile, io ho la fortuna di avere un marito meraviglioso che mi da una grossa mano. Purtroppo non abbiamo i nonni vicino perché vivono in Calabria, ma in ASI c’è l’AstroNido, dove mia figlia rimane fino alle 16.30. Si tratta di un nido privato che si trova nella stessa struttura in cui lavoro io, per cui è molto comodo. Ma non è comunque semplice, perché la bambina richiede molte attenzioni: io spesso e volentieri sono in riunione, quando si tratta di incontri virtuali lei partecipa anche, tanto che ormai la conoscono tutti. E quando viaggio, e mi capita spesso sia per partecipare a conferenze sia per altre questioni legate ad ASI, se mio marito può mi accompagna: così di giorno svolgo le mie attività lavorative e di sera ci ritroviamo tutti insieme e mi godo la bambina. Fare la mamma lavoratrice non è per nulla facile, ma se si vuole si può fare.

C’è stato un momento della sua vita in cui ha deciso di fare la scienziata?

È stato amore a prima vista, e con questo intendo dai tempi delle scuole elementari. Ho aperto il sussidiario, ho visto l’immagine del sistema solare e ho detto «Io da grande voglio studiare questo, voglio sapere come funziona questo». Ed è stato veramente così. Ho cominciato a leggere tanto e a documentarmi sull’argomento. Ci tengo a dire che la mia famiglia da questo punto di vista è stata fondamentale: mi ha supportato regalandomi un telescopio e tanti libri sull’argomento e mi ha incoraggiato e sostenuto nelle mie scelte formative: dal liceo scientifico, perché volevo studiare Fisica fin dal primo anno, fino all’università in Fisica e alla specializzazione in Astrofisica. Ogni passo che facevo mi serviva per prendere coscienza di quello che avevo deciso di studiare, rafforzando la mia decisione.

C’è qualcosa che ha fatto nella sua carriera che le ha dato una particolare soddisfazione?

Ce ne sono tante. Dal punto di vista professionale il fatto stesso di essere entrata come Research Fellow nell’Agenzia Spaziale Europea la prima volta che ho fatto domanda è stato molto gratificante, perché è un posto dove prendono a lavorare davvero poche persone per volta. Così come l’essere riconosciuta da professori di calibro internazionale: ad esempio quando mi sono trasferita in Inghilterra furono proprio alcuni professori dell’Imperial College a chiedermi di partecipare al concorso perché sarebbero stati felici di poter lavorare con me. É un riconoscimento a tutti i sacrifici che una persona fa. In generale, il fatto stesso di aver raggiunto i miei obiettivi e i miei sogni è qualcosa che da molta soddisfazione.

In questo suo percorso professionale c’è stato qualche momento di crisi, magari legato a pregiudizi o stereotipi?

Devo dire che ho un carattere molto forte, per cui non mi faccio abbattere dalla difficoltà. Ma certamente ho vissuto anche dei momenti difficili: ad esempio, gli inizi del mio periodo parigino non sono stati per niente facili, non era semplice approcciarsi al modo di fare ricerca che utilizzavano, ma ho sempre tenuto a mente l’obiettivo che avevo. Però forse i momenti più complicati sono arrivati prima, nel periodo scolastico. Ricordo ad esempio un docente che una volta mi disse: «ma perché vuoi studiare Fisica, tu sei una donna, ti vedrei più a fare Ingegneria gestionale… per la gestione della casa». Forse la sua voleva essere solo una battuta, io non mi sono sentita toccata perché studiare Fisica era quello che volevo, però magari se al mio posto ci fosse stata una ragazza con un carattere diverso avrebbe potuto essere condizionata da questa affermazione. In generale credo che le parole, soprattutto in certe situazioni, vadano pesate perché gli stereotipi possono essere davvero ingombranti.

Secondo lei questo approccio «maschilista» esiste ancora nel mondo della scuola?

Non lo definirei proprio «maschilista», più che altro è la concezione diffusa che i maschi siano più portati a studiare determinate materie e fare determinate cose. Io ho fatto un po’ di tirocinio in alcune scuole, interfacciandomi quindi direttamente con gli studenti di liceo. E ho riscontrato che a volte le ragazze sperimentano un senso di inferiorità rispetto alla possibilità di interessarsi e studiare le materie scientifiche. Senso di inferiorità che secondo me non ha ragione di esistere, perché tutti abbiamo le stesse possibilità. Quindi se ad una studentessa interessa una materia scientifica deve poterla approfondire, senza sentirsi inadeguata e non all’altezza. E questo a prescindere dalla predisposizione, che certamente, se presente, aiuta. É quindi fondamentale il supporto sia della scuola ma anche della famiglia, perché se esiste un interesse e una predisposizione scientifica va coltivata fin dall’inizio, sia nei bambini che nelle bambine. Ed è importante che le famiglie credano nelle passioni dei figli. È quello che cerco di fare io con la mia: se mi chiede un giocattolo fatto da un martello e un chiodo la accontento e la incoraggio nella sua scelta anche se magari qualcuno la considererebbe «poco femminile». Questo per dire che credo sia necessario agire sulla cultura e sulla mentalità sia delle famiglie che delle scuole.

Invece nella comunità di cui lei fa parte com’è la situazione delle quote rosa? C’è differenza tra Italia ed estero?

Parlando di comunità relative al Sole e al vento solare che è appunto il mio campo, quando ci sono le conferenze internazionali, a cui partecipano studiosi da tutto il mondo, le quote rosa generalmente sono basse. Ma è una situazione che accomuna diversi paesi, non solo l’Italia. L’anno scorso, ad esempio, ero ad una conferenza e su 50 persone noi donne eravamo tre o quattro, ma altre volte, ad altre conferenze, eravamo la metà. Quindi dipende un po’ dalle varie situazioni. In ASI, ad esempio, noi donne siamo il 50%, ma la nostra Agenzia da questo punto di vista è un esempio virtuoso. Conosco tantissime ricercatrici, per cui non siamo «mosche bianche», ma c’è ancora molto lavoro da fare in questo senso, a partire dall’educazione e dalla scuola. E non si tratta di invogliare le ragazze a studiare determinate materie ma, come dicevo prima, di far loro capire che possono seguire le loro inclinazioni. Mentre invece magari a volte si sentono dire che siccome sono donne è meglio che certe materie le lascino perdere. Ma la scienza non è né maschio né femmina, non fa distinzione fra i sessi.

Mi racconta i progetti su cui ha lavorato e in cui è impegnata attualmente?

Come accennavo prima io nasco con Solar Orbiter, la missione spaziale che ha come obiettivo lo studio del Sole e della sua interazione con la Terra: quindi tutto ciò che riguarda anche lo Space Weather e i modi in cui la forte attività solare può influenzare la vita sulla Terra. Quando ero all’estero ho lavorato soprattutto sugli strumenti di particelle e di campo magnetico, in preparazione al lancio della missione. Quando mi sono trasferita in ASI la missione dopo sei mesi è partita e io sono tuttora ASI Project Scientist dello strumento di particelle a bordo di Solar Orbiter. Per cui continuo a lavorare al monitoraggio dello strumento di Solar Orbiter di cui ASI ha finanziato parte dell’hardware; ma faccio anche da ponte con la comunità scientifica e ricerca sui dati che ci arrivano. Svolgo anche attività di project management per le missioni: ad esempio, attualmente sto seguendo la missione Muse della NASA, e stiamo anche cominciando a lavorare ad un’altra missione, candidata a missione ESA M7 e dedicata alle interazioni del vento solare e del Sole con la Terra. Questi ultimi sono argomenti di grande interesse per il pubblico, perché sono relativamente semplici da capire ed influenzano anche altre attività di grande impatto come il ritorno sulla Luna o i viaggi verso Marte, e, più in generale, l’esplorazione spaziale.

Il mondo della ricerca scientifica legata allo spazio è un territorio dominato dalla celeberrima americana NASA o esiste anche un’equivalente europea?

La NASA europea è l’ESA, ma questi mondi non sono staccati tra di loro. Noi facciamo parte dell’Esa, ma lavoriamo anche in collaborazione con la NASA. Non parlerei dunque di tecnologie separate tra un’agenzia e l’altra perché nel mondo dello spazio e della ricerca spaziale c’è grande collaborazione. Anche la missione di cui parlavo prima e di cui sono Project Manager per ASI è targata NASA. La stessa Solar Orbiter è una missione di ESA, fatta in collaborazione con la NASA, e che ha avuto contributi nazionali, come quello di ASI. Per cui non ci si ferma a livello nazionale ed europeo, soprattutto quando si vogliono preparare delle missioni impegnative. Ma anche a livello nazionale i progetti proposti e gestiti direttamente da ASI sono moltissimi.


L’Agenzia Spaziale Italiana

L’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) è un ente pubblico nazionale fondato nel 1988 per preparare e mettere in atto la politica spaziale italiana, in accordo con le linee guida del Governo.

L’Agenzia è riconosciuta come uno dei più importanti attori mondiali sulla scena della scienza spaziale, delle tecnologie satellitari e dello sviluppo di mezzi per raggiungere ed esplorare il cosmo. L’ASI intrattiene uno stretto e continuo rapporto di collaborazione con la NASA, che l’ha portata a partecipare a molte delle più interessanti missioni scientifiche degli ultimi anni. Tra questi c’è stata la costruzione e l’attività della Stazione Spaziale Internazionale. L’attività dell’ASI ha permesso alla comunità scientifica italiana di ottenere diversi importanti successi nel campo dell’astrofisica e della cosmologia. Ma l’attività dell’Agenzia si concentra, oltreché sullo studio dello spazio, anche sull’osservazione della Terra (ad esempio con i progetti COSMO-SkyMed e PRISMA), attività necessaria per azioni di monitoraggio e prevenzione di disastri ambientali, effetti del cambiamento climatico e così via.

Sono tre le basi operative dell’ASI, oltre il quartier generale di Roma: a Malindi in Kenya, nel cagliaritano e a Matera. Proprio quella in Basilicata è la storica base che si occupa della geodesia spaziale, telerilevamento, telecomunicazioni quantistiche “free space”, tracciamento della “spazzatura spaziale” e la metrologia del tempo e delle frequenze. A questo si unisce lo Space Science Data Center (SSDC), un’infrastruttura di ricerca dedicata alle operazioni scientifiche, all’elaborazione, all’archiviazione e alla distribuzione di dati, il cui scopo è quello di fornire supporto alle missioni spaziali scientifiche in cui è coinvolta l’Italia. Il più antico di tutti è il Centro Spaziale “Luigi Broglio” di Malindi in Kenya, dal quale ha preso il via l’attività spaziale italiana. Nato come sito di lancio è oggi, attraverso il segmento terrestre, un centro di ricezione dati e del controllo di satelliti da terra. Ultimo arrivato in ordine di tempo è il Sardinia Deep Space Antenna (SDSA), l’unità scientifica nei pressi di Cagliari, diventata operativa nell’ambito del Deep Space Network della NASA, in grado di offrire servizi di supporto per le missioni interplanetarie e lunari e di consentire lo sviluppo di attività di radioscienza. Inoltre, attraverso l’ASI e l’industria nazionale, l’Italia continua una tradizione di ricerca nella propulsione spaziale, in particolare come leader del programma europeo VEGA, il lanciatore di progettazione italiana.

Tutte queste attività rientrano nella visione odierna che lo spazio sia, oltre ad uno straordinario settore della ricerca, anche un’importante opportunità economica. Ad esempio, il mercato delle telecomunicazioni e della navigazione satellitare è in continua espansione e l’ASI, con la sua esperienza nella costruzione e messa in orbita di satelliti, opera perché l’Italia sia pronta a coglierne le occasioni. Lo spazio appare oggi dunque come un luogo da cui partire per ampliare l’orizzonte culturale dell’uomo, far crescere la sua consapevolezza e garantire un futuro migliore sulla Terra, attraverso domande fondamentali sulla comprensione dell’universo e sull’origine della vita, e alla sperimentazione di nuove tecnologie.


Giulia Galliano Sacchetto
Giornalista professionista, con alle spalle esperienze in diversi campi, dalla carta stampata al web. Mi piace scrivere di tutto perché credo che le parole siano un’inesauribile fonte di magia.

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